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Album "La Bustina di Minerva"

In questa gallery raccogliamo documenti che illustrano la genesi e la vita editoriale della raccolta di articoli La Bustina di Minerva di Umberto Eco (Bompiani, 2000), che fanno riferimento ai temi trattati nell’opera o hanno fornito uno spunto per uno dei testi contenuti nel volume. Questo è il resoconto di un’esperienza di lettura e di ricerca nel patrimonio della nostra biblioteca (con alcune escursioni su altre raccolte documentarie). Non c’è quindi nessuna pretesa di una presentazione esaustiva dei molti argomenti e materiali che la varietà caleidoscopica degli articoli potrebbe suggerire. La scelta di quali percorsi esplorare o ignorare si è basata su motivazioni anche episodiche e dettate dall’interesse dei lettori e dalle discussioni che il gruppo di lettura ha sostenuto negli incontri precedenti. Più ancora che per le galleries precedenti anzi, in questo caso la natura frammentaria del testo ha suggerito una metodologia di ricerca spesso guidata dal caso e dalla serendipità, che restituisce un lavoro frammentario e composito, che speriamo possa rendere conto della struttura testuale e concettuale dell’opera da cui siamo partiti.

Delle citazioni non forniremo la pagina precisa ma il titolo dell’articolo da cui sono tratte. Questo rende più semplice identificare la citazione nelle diverse edizioni pubblicate della Bustina e la brevità degli articoli stessi (poco più di due pagine per la gran parte dei testi) rende molto semplice rintracciarvi il passo citato.

I documenti utilizzati sono quasi totalmente conservati e consultabili presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Salvo dove diversamente specificato la collocazione indicata è quindi relativa a questa biblioteca.

image of Umberto Eco, La bustina di Minerva (2000)
Umberto Eco, La bustina di Minerva (2000)
La Bustina di Minerva è il titolo della rubrica che Umberto Eco tiene su «L’Espresso» fin dal marzo 1985, prima settimanalmente poi, dal 1988, con cadenza quindicinale (in alternanza, per lungo tempo, Il vetro soffiato di Eugenio Scalfari). Nel 2000, come sempre presso l’editore Bompiani, viene pubblicato il volume che è nostro oggetto di lettura, in cui l’autore inserisce una selezione dei testi editi sul periodico dal 1990 al 1999. Si tratta naturalmente di testi brevi, dal momento che la rubrica occupa - e continuerà ad occupare (la pubblicazione in volume infatti non segna la fine della rubrica, che andrà avanti fino al 2015) - una pagina. Anzi, l’ultima pagina del fascicolo settimanale. Nell’introduzione al volume Eco illustra i criteri con cui ha selezionato le Bustine incluse - sono rimaste fuori quelle troppo legate a eventi di attualità, quelle dedicate ai giochi di parole, quelle che ricordano amici o maestri scomparsi - e gli interventi compiuti sui testi originali. Inoltre segnala che due degli articoli presenti nel libro - Su un processo e Kosovo - non provengono in realtà dalla rubrica, come testimoniato dalla loro lunghezza, ma sono stati pubblicati in altre occasioni. Gli sembrava però che potessero rientrare nella struttura generale del libro e completarlo, quindi ha deciso di aggiungerli. L’indice comprende 148 testi esclusa l’introduzione. Alcune Bustine erano già state pubblicate nel 1992 in Il secondo diario minimo (Diario minimo era il titolo di un’altra rubrica che Eco aveva tenuto su «il Verri» dal 1959 al 1961). Infine, come accennato prima, il testo introduttivo informa che molti dei “giochini” che ogni tanto comparivano nella rubrica - cioè «esercizi giocosi ancorché istruttivi» che invitavano a utilizzare la lingua in maniera divertente e arguta - erano pubblicati sul sito www.rivistagolem.it, oggi non più raggiungibile in questa forma ma che faceva riferimento alla rivista online «Golem. L’indispensabile», fondata da Eco nel 1996 e di cui oggi si può ancora reperire traccia in rete nella Wayback Machine di Internet Archive. Nel 2006 è stato anche pubblicato Scritti scelti 1996-2006. Dieci anni in rete, a firma Golem l'indispensabile. Chi maturasse il desiderio di avere un assaggio esemplificativo di quei “giochini”, oltre a sfogliarsi vecchi numeri de «L’Espresso», può recuperare il volumetto Povero Pinocchio. Giochi linguistici di studenti del Corso di Comunicazione. Dopo il 2000 Eco non smette di recuperare alcune Bustine per ripubblicarle in volume. Se ne trova un certo numero in A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico (2006), ma un volume composto di sole Bustine arriva solo nel 2016, postumo, ed è Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, che è anche il primo libro in assoluto pubblicato dalla casa editrice La Nave di Teseo, di cui lo stesso Eco era stato co-fondatore l’anno precedente. Purtroppo, sia nel volume del 2000 che negli altri che ripropongono le Bustine, non viene mai fornita la data precisa in cui sono state pubblicate su «L’Espresso», ma solamente l’anno.   Umberto Eco, La Bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 2000. Collocazione: 20. G. 672  
image of La prima Bustina: Che bell'errore! (31 marzo 1985)
La prima Bustina: Che bell'errore! (31 marzo 1985)
Come già detto, il volume uscito nel 2000 contiene solamente Bustine degli anni Novanta. Non riporta quindi la prima “puntata” della rubrica, uscita su «L’Espresso» del 31 marzo 1985, annunciata sia sulla copertina che nell’indice del fascicolo da un piccolo riquadro in cui compare lo stesso ritratto di Eco, firmato da Tullio Pericoli, che accompagna anche il testo. In questa prima Bustina l’autore spiega la scelta del titolo:   «L’intitolo alla bustina di Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Quando capita che la bustina abbia il lembo interno vergine di pubblicità, gli uomini pensosi usano appuntarvi idee vaganti, numeri di telefono di donne che un giorno sarà opportuno amare, titoli di libri da comperare, o da evitare. [...] Ritengo sia utile appuntare idee sulle bustine di Minerva [...]: sull’ultimo libro non letto, sull’intuizione che ci ha attraversato la mente mentre si frenava per non finire in coda a un Tir, sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire. Poi si vedrà».   Continuando la lettura oltre questa breve introduzione si ritrovano già un paio di temi interessanti. Il primo spunto di discussione nasce da uno sceneggiato TV dedicato a Cristoforo Colombo. Eco continua quindi a tenere al centro della propria attenzione, fra le altre cose, i media di massa, come ben sappiamo dopo la lettura che abbiamo fatto di Apocalittici e integrati. Ma il cuore del discorso di questo primo articolo riguarda il concetto di serendipità - di cui l’avventura di Colombo appunto è caso paradimagtico - cioè l’idea che spesso una scoperta importante nasce per caso e da un errore di valutazione compiuto dal ricercatore. Scrivere questa rubrica può avere per lui la stessa funzione, può essere lo spazio in cui «Allenarsi a rischiare errori, con la speranza che alcuni siano fecondi». Nel nostro piccolo ci siamo accorti che partire per una ricerca documentaria sulla base dei testi raccolti nel volume - frammentari, vari, così diversi l’uno dall’altro - può portare a ricerche in cui si concretizza proprio il concetto di serendipità, l’esperienza stimolante di trovare «qualcosa cercando qualcosa d’altro». Lo vedremo, nel corso di questa gallery. Eco dà un esempio di queste piccole avventure di ricerca guidate dal caso in Trionfo e tramonto della stroncatura, Bustina del 1999 in cui racconta che, cercando un suo articolo del 1991 sui tabù linguistici, gli era capitata fra le mani «un’altra Bustina, del novembre 1986» in cui si parlava del fatto che fra le recensioni dei giornali non si incontrassero più delle belle stroncature. E quest’idea aveva preso il sopravvento, portando all’elaborazione di un nuovo testo sul tema.   Umberto Eco, Che bell’errore!, «L’Espresso», XXXI, 31 marzo 1985, p. 210. Collocazione: 19/411
image of Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Giochi di pazienza (1975)
Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Giochi di pazienza (1975)
Nella prima Bustina pubblicata, Eco cita Carlo Ginzburg, che della serendipità si è occupato «nel suo famoso saggio sul paradigma indiziario», cioè Spie. Radici di un paradigma indiziario, pubblicato in prima battuta nel 1979 nel volume collettivo Crisi della ragione e poi riproposto in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia (volume ripubblicato di recente con delle aggiunte). Il nome dello storico, che ritroveremo più avanti, avendo parlato di questa metodologia di ricerca fatta anche per accostamenti e illuminazioni casuali e episodiche, ci riporta alla mente un caso di serendipità da lui stesso illustrato nell’opera di cui vediamo la copertina, scritta insieme a Adriano Prosperi. E si tratta di un caso che riguarda proprio la nostra biblioteca. In Archiginnasio ci siamo occupati di Giochi di pazienza nel 2019, quando abbiamo allestito la mostra Come un incendio d’estate secca e ventosa, che celebrava il ventennale della pubblicazione del romanzo Q di Luther Blissett. La terza parte del romanzo infatti è tutta incentrata sul Beneficio di Cristo, opera cinquecentesca messa all’indice per contenuti eretici, che era anche il fulcro di interesse della ricerca di Ginzburg e Prosperi. Una pagina della mostra online è dedicata a spiegare come l’opera storica fosse stata l’ipotesto fondamentale per la scrittura del romanzo, come testimoniato dallo stesso Luther Blissett. Nella stessa pagina, da cui a breve citeremo, viene esposto anche il caso di cui si diceva sopra. Si tratta di una delle tante ricerche fatte dai due autori, nell’anno accademico 1971-1972, nel catalogo storico dell’Archiginnasio, il Catalogo Frati-Sorbelli, oggi digitalizzato ma allora consultabile solo fisicamente. Proprio questa consultazione fisica, compiuta aprendo cassetti e sfogliando schede, aveva portato a una scoperta casuale che forse non si sarebbe verificata sulla versione digitale del catalogo:   «Infine il caso più curioso, che illustra in maniera paradigmatica uno degli assunti di Giochi di pazienza, cioè l’importanza della casualità, della serendipità, nell’attività di ricerca. Mentre è in caccia di testi che parlino di predestinazione – tema cruciale nel Beneficio – uno degli autori scopre L’heremita, ovvero della predestinatione di Marco Mantova Benavides grazie a “un errore del catalogo della biblioteca dell’Archiginnasio. Stava passando in rassegna tutti i “Marco” per rintracciare un Marco da Brescia benedettino saltato fuori dal repertorio dell’Armellini. L’heremita figurava come opera di “Marco da Mantova” – mentre tutti gli altri scritti del Mantova Benavides erano catalogati correttamente sotto Benavides” (p. 129)».   Nella mostra era esposta anche la scheda sbagliata del nostro catalogo. Anche in questo caso potremmo esclamare, con Eco: Che bell’errore!   Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul Beneficio di Cristo, Torino, Einaudi, 1975. Collocazione: CONT. 391 258    
image of Umberto Eco, Moralista a fumetti (7 aprile 1985)
Umberto Eco, Moralista a fumetti (7 aprile 1985)
Recuperando la prima Bustina su «L’Espresso» ci siamo spinti a sfogliare anche i fascicoli successivi del periodico, per capire quali fossero i primi temi toccati da Eco nel redigere la rubrica. E al secondo appuntamento abbiamo la conferma che le tematiche incontrate in Apocalittici e integrati continuano a stimolare l’interesse del professore. Se il 31 marzo il discorso partiva da uno sceneggiato televisivo, il 7 aprile Eco prende le mosse dal lavoro di un fumettista, Staino. In particolare da una mostra a lui dedicata, il cui catalogo si intitola Bobo e dintorni. Il titolo dell’articolo è Moralista a fumetti e Eco sottolinea come l’immagine, quando ben realizzata, abbia maggiore capacità e forza critica di molte parole.   Umberto Eco, Moralista a fumetti, «L’Espresso», XXXI, 7 aprile 1985, p. 226. Collocazione: 19/411
image of Staino, Bobo e la tv
Staino, Bobo e la tv
Dopo quanto detto all’immagine precedente, non ci stupisce trovare all’interno del volume Il villaggio di vetro. Parole e immagini: occasione di democrazia, rischio di regime, che raccoglie gli Atti della Prima convenzione nazionale del PCI sulle comunicazioni di massa (tenutasi a Roma dal 12 al 14 marzo 1987), un intervento grafico di Staino. Bobo è protagonista di alcune vignette simili a questa, in cui con ironia e sarcasmo commenta la TV italiana. Ma ora è venuto il momento di lasciare le pagine del periodico per esplorare quelle del volume pubblicato nel 2000. Lo faremo seguendo l’ordine dei testi proposti, che è un ordine organizzato dall’autore per grandi tematiche, senza rispetto per la cronologia dell’uscita dei vari articoli.   Il villaggio di vetro. Parole e immagini: occasione di democrazia, rischio di regime, a cura di Antonio Zollo, Roma, Editori riuniti, 1987. Collocazione: 34. C. 183
image of Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico (1991)
Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico (1991)
Su un processo è uno dei due articoli che vengono inseriti nel volume pur non essendo comparsi nella rubrica de «L’Espresso» ma su «Micromega» (n. 3 del giugno-settembre 1997, p. 243-252) con il titolo Sofri e l’onere della prova. Come scrive Eco, questo testo nasce sulla scia di un altro articolo pubblicato sul numero precedente della stessa rivista da Carlo Ginzburg, intitolato Sofri, la giustizia umiliata (p. 257-269). Lo storico aveva pubblicato un intero volume dedicato a questo caso giudiziario nel 1991 (subito dopo il primo processo a Sofri), Il giudice e lo storico, di cui vediamo la copertina. Ginzburg nell’introduzione spiega che, oltre a mostrare come quel processo fosse stato condotto in maniera scorretta da un punto di vista giuridico, l’intento del volume era quello di approfondire un tema attorno al quale lui stesso aveva già più volte scritto, i «rapporti, intricati e ambigui, tra il giudice e lo storico» e in particolare «le implicazioni metodologiche e (in senso lato) politiche di una serie di elementi comuni ai due mestieri: indizi, prove, testimonianze» (p. VIII). Un caso di cronaca quindi diventava occasione per una riflessione teorica ben più ampia, modalità di riflessione che ritroviamo spesso anche nelle Bustine. Lo testimonia proprio Su un processo, in cui attraverso il caso Sofri Eco approfondisce le riflessioni che pone a inizio articolo relativamente alle tesi di coloro che, in maniera sempre più forte e diffusa, vogliono negare l’Olocasuto. Il libro di Ginzburg uscirà negli anni successivi in edizioni aggiornate.   Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino, Einaudi, 1991. Collocazione: 35. A. 29674
image of Sotto il nome di plagio (1969)
Sotto il nome di plagio (1969)
In Su un processo Eco ricorda un altro caso che sul finire degli anni Sessanta aveva scosso e polarizzato l’opinione pubblica, con modalità e motivazioni simili al processo Sofri, pur se con un’eco minore. Su quell’episodio - oggi praticamente dimenticato - e sul processo che ne era conseguito, era stato pubblicato il volume che qui vediamo, a cui Eco aveva contribuito con un testo dal titolo Le parole magiche, poi confluito nella sua raccolta di saggi Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia italiana del 1973 (Eco lo ricorda nella nota 3 di Su un processo, specificando che sicuramente il volume sul caso Braibanti era irreperibile nelle librerie). Gli eventi che avevano coinvolto - e travolto - Aldo Braibanti sono riassunti così in Su un processo:   «Un oscuro professore di provincia - tra l’altro non l’ho mai conosciuto, né prima né dopo - era stato accusato di “plagio”: di avere cioè sedotto e irretito due giovanotti (si badi bene, adulti) inducendoli a vivere con lui un rapporto omosessuale e - ciò che pareva peggio - una vita di bohème e una serie di idee che andavano dal marxismo alle opinioni atee del filosofo ebreo [sic] Baruch Spinoza».   Come il processo Sofri, anche quello a Braibanti era «stato condotto violando tutte le regole della logica e della ragionevolezza» dal momento che «semplicemente non esisteva il reato». Braibanti viene assolto in appello. Perché Eco ricorda questo episodio?   «Perché alla fine gli interventi meditati e mirati sul nodo essenziale della vicenda (il processo era viziato) hanno certamente influito su una riconsiderazione più equilibrata del caso. Se invece si fossero viste per le strade manifestazioni di omosessuali che chiedevano la liberazione di Braibanti perché era uno dei loro, ritengo che Braibanti sarebbe ancora in galera».   Ugualmente deboli, a suo avviso, se non dannosi, erano stati per Sofri gli argomenti di coloro che lo difendevano sulla base del fatto che lo conoscevano bene e ritenevano che non avesse potuto commetere il reato di cui era accusato. Molto meglio sarebbe stato avere più interventi razionali e ponderati come quello di Ginzburg, che pur considerando l’imputato uno dei suoi migliori amici, si occupava di come era stato condotto il processo e dell’assurdità dell’accusa, senza mettere in campo elementi legati alle relazioni personali.   Sotto il nome di plagio. Studi e interventi sul caso Braibanti, Milano, Bompiani, 1969. Collocazione: CONT. 385 066
image of René Bittard des Portes, Charette et la guerre de Vendée (1902)
René Bittard des Portes, Charette et la guerre de Vendée (1902)
Due Bustine datate 1994 - Quelli che elogiano la Vandea stanno pensando a Salò e La Vandea, Cardini e la Primula Rossa - prendono spunto da una polemica che è oggi dimenticata ma che grazie alla trattazione che ne fa Eco incuriosisce ad approfondire la ricerca. Al Meeting di Rimini di quell’anno viene allestita una mostra dedicata alla guerra dei cattolici antirivoluzionari vandeani del 1793 - «una insurrezione di nobili e contadini contro la deprecata Rivoluzione (che oggi permette a chiunque di andare alla Camera)» - che certifica l’elezione della Vandea «luogo mitico» per l’immaginario della destra cattolica italiana. Il riferimento parlamentare è inserito da Eco anche per ricordare che Irene Pivetti, appena eletta Presidente della Camera, indossa spesso la croce di Vandea, simbolo di quella rivolta antirivoluzionaria. Eco, nel primo dei due articoli sopra citati, trae le sue conclusioni: «a poco a poco la Vandea sta diventando un’allegoria: si elogia la Vandea pensando a Salò». Per questo, come testimonia il secondo articolo, verrà criticato da molti, fra cui lo storico Franco Cardini, ma quello che a noi interessa, è che Eco, per combattere le semplificazioni e i revisionismi che si nascondono dietro l’angolo di ogni riferimento storico compiuto senza cognizione di causa, invita ad approfondire l’analisi. E lo fa proponendo non tanto la lettura di studi storico-archivistici, come quello che citiamo qui e che ci serve solo per localizzare il territorio, ma invitando a (ri)leggere un romanzo.   René Bittard des Porte, Charette et la guerre de Vendée. 1793-1796, Paris, Émile-Paul, 1902. Collocazione: VENTURINI B. 1906
image of Victor Hugo, Quatrevingt-treize (1874)
Victor Hugo, Quatrevingt-treize (1874)
Il romanzo suggerito da Eco nell’immagine precedente è Quatrevingt-treize di Victor Hugo, sicuramente non uno dei più conosciuti e letti, oggi, del grande scrittore francese. Un’occasione quindi per (ri)scoprirlo. Questo è il frontespizio della prima edizione francese (l’indicazione cinquième édition indica in realtà una ristampa), uscita in tre volumi nel 1874.   Vistor Hugo, Quatrevingt-treize, 3 vol., Paris, Michel Lévy frères, 1874. Collocazione: 9. N. IV. 37-39  
image of Victor Hugo, Il novantatre (1874)
Victor Hugo, Il novantatre (1874)
Nello stesso 1874, a testimonianza di come Hugo sia uno scrittore di grande successo, esce anche la prima edizione italiana del romanzo che racconta l’insurrezione vandeana, ugualmente in tre volumi.   Victor Hugo, Il Novantatre, 3 vol., Milano, F.lli Simonetti, 1874. Collocazione: VENTURINI B. 873 / 1-3
image of Victor Hugo, Il novantatre (1907) - La Vandea
Victor Hugo, Il novantatre (1907) - La Vandea
Illustriamo le ragioni per cui Eco consiglia la lettura di Quatrevingt-treize sfogliando un’edizione italiana del 1907 che ha il pregio di avere numerose e belle illustrazioni. Questa è quella che racchiude meglio l’essenza dell’insurrezione cattolico-monarchica dei vandeani, con il suo fiorire di simboli religiosi, come la corona del Rosario fra le mani del personaggio in primo piano. Un brano tratto dalla prima delle due Bustine dedicate alla Vandea sintetizza i motivi per cui leggere il romanzo può aiutare ad andare al di là delle semplificazioni e delle sclerotizzazioni della polemica politica:   «Anno terribile (di Terrore), il 1793, in cui la ghigliottina ha lavorato a pieno regime, e hanno perso la testa il re e tanti vandeani, ma anche tanti rivoluzionari della prima ora. E di questo anno atroce Hugo racconta e ci permette di capire tante cose. I sentimenti di Hugo sono repubblicani, ma la sua passione etica, la sua umanità, certamente anche la sua natura di narratore (che lo porta a comprendere i moventi degli individui tutti coinvolti in quella bufera) fanno sì che questo libro non sia una storia di buoni contro cattivi, ma di personaggi (tutti ugualmente e romanticamente ammirabili e spasmodicamente ammirati dall’autore) travolti da un evento più grande di loro».   Queste le parole con cui Eco conclude l’articolo:   «È che si può parlare della Vandea (e della nascita del mondo borghese contro cui essa si batteva) cercando di capire quello che è successo allora. Leggendo Hugo si capisce, e si prova (aristotelicamente) terrore e pietà. E si capisce come eventi di quella grandezza atroce debbano essere rispettati nella prospettiva di un ricordo perturbato e commosso, non ridotti a slogan, a copia o calco di passioni tutto sommato più modeste, o di ideali più gelidi».   Victor Hugo, Il novantatre, Milano, Societa editoriale milanese, stampa 1907. Collocazione: 20. D. 2943
image of Victor Hugo, Il novantatre (1907) - Gauvain
Victor Hugo, Il novantatre (1907) - Gauvain
Ancora da Quelli che elogiano la Vandea stanno pensando a Salò:   «Il lettore sino alla fine non sa se amare maggiormente l’intemerato reazionario [Lantenac] o Cimourdain, l’incorruttibile e ascetico rivoluzionario - o il giovane e sfortunato Gauvain, pupillo amatissimo di Cimourdain, nobile che ha scelto la rivoluzione ma che non sa dimenticare le proprie origini, e favorisce la fuga di Lantenac, ormai condannato a morte. Morirà Gauvain, che Cimourdain inflessibile come un bruto invia al patibolo; morirà Cimourdain, sparandosi una palla nel cuore, per punirsi di aver punito un nemico del popolo. E la bellezza della vicenda è che un amore altrettanto intenso, misto di avversione e ammirazione, è quello che unisce i due rappresentanti delle parti armate l’una contro l’altra, Lantenac e Cimourdain».   Victor Hugo, Il novantatre, Milano, Societa editoriale milanese, stampa 1907. Collocazione: 20. D. 2943
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Honoré de Balzac, Les Chouans (dopo il 1830)
Anche un altro grande narratore francese, Balzac, ha dedicato all’insurrezione vandeana un romanzo, Les Chouans.   Honoré de Balzac, Les chouans. Une passion dans le désert, Paris, Societé d'éditions litteraires et artistiques, [dopo il 1830]. Collocazione: CdF. XX. A. 467
image of Filippo Clementi, Vandea (1893)
Filippo Clementi, Vandea (1893)
La forza narrativa insita nelle vicende vandeane è testimoniata anche da questa opera musicale, rappresentata in prima assoluta al Teatro Comunale di Bologna nel novembre 1893, in occasione del centenario dell’inizio della rivolta. Autore di parole e musica è Filippo Clementi. Ulteriori informazioni sull’opera si possono trovare all’interno di Corago. Repertorio e archivio di libretti del melodramma italiano dal 1600 al 1900.   Vandea. Dramma lirico in tre atti. Teatro Comunale di Bologna, novembre 1893, poesia e musica di Filippo Clementi, Bologna, Achille Tedeschi, 1893. Collocazione: MISC. B. 2944
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«la Repubblica», 14 gennaio 1976 - Prima pagina
In Ultimissime dell’ultimissima ora, Bustina di inizio 1996, Eco finge di confondere il numero di «la Repubblica» del 14 gennaio 1996 con quello del 14 gennaio 1976, cioè il primo uscito nelle edicole. Si accorge dell’errore quando, arrivato alla pagina dei programmi TV, nota che esistono solamente il primo e secondo canale RAI. Il gioco - che nasce dal fatto che il facsimile di quel primo fascicolo era stato allegato a quello uscito esattamente 20 anni dopo, per celebrare la ricorrenza - serve a dire che in due decenni «in questo paese sembra che siano cambiate tante cose ma sostanzialmente ripetiamo sempre la stessa sceneggiatura». L’unica differenza è che «i canali TV sono passati da due ad alcune decine». Il cinquantenario della nascita del quotidiano dista ormai pochi mesi, e anche per questo viene la curiosità di andare a riprendere i due fascicoli su cui Eco gioca. Non vale la pena farne un’analisi approfondita per verificarne la somiglianza, perché quella contenuta nella Bustina è chiaramente un’affermazione paradossale e iperbolica che vuole dire altro, ma uno sguardo alla prima pagina del 14 gennaio 1976 colpisce per la sua sobrietà. Il giornale esce per la prima volta nelle edicole e non vi si trova, in prima pagina, nessuna dichiarazione d’intenti, nessun proclama, neanche un accenno al fatto che quello sia, appunto, il primo numero di un’avventura che si pensa possa raggiungere traguardi ambiziosi. Si danno le notizie, semplicemente. Naturalmente la ricerca andrebbe approfondita, si dovrebbe cercare di capire come quell’inizio era stato annunciato, quale era il clima sociale e comunicativo in cui si inseriva e le modalità con cui vi si voleva inserire. Ma la sola visione di questa prima pagina la colloca davvero in un mondo informativo totalmente diverso da quello odierno.   «la Repubblica», I, 14 gennaio 1976. Collocazione: G. 131
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«la Repubblica», 14 gennaio 1996 - Prima pagina
Anche la prima pagina del 14 gennaio 1996 si segnala per la quasi totale assenza di celebrazioni. Oggi gli anniversari sono - giusto o sbagliato che sia - uno dei motori della vita culturale e siamo quindi abituati ad enfatizzarli (e il quotidiano si è adeguato ai tempi, infatti le celebrazioni per il cinquantenario del quotidiano sono già iniziate da tempo). Colpisce quindi il fatto che il ricordo del ventennale in prima pagina si riduca a un editoriale del direttore e fondatore Eugenio Scalfari intitolato Vent’anni dopo..., che si conclude a p. 4 e che non assume neppure a livello tipografico un ruolo di particolare rilievo. Nel testo dell’articolo la celebrazione è un po’ più accentuata. Scalfari rivendica il fatto che il quotidiano ha ottenuto uno degli scopi per cui era nato, cioè svecchiare il modo di fare giornalismo in Italia. Il secondo obiettivo però - «contribuire alla trasformazione della politica che in questo paese aveva ancora caratteri arcaici, tribali, ideologici del tutto inadatti a gestire uno Stato moderno», dice Scalfari - è stato completamente mancato perché la classe politica italiana, nonostante il terremoto di Tangentopoli, non ha cambiato modo di fare. Forse allora aveva ragione Eco: nulla è cambiato.   «la Repubblica», XXI, 14 gennaio 1996. Collocazione: G. 131
image of Libri salvati 2025
Libri salvati 2025
In Ma da che parte sta Corto Maltese? Eco affronta quella che definisce l’ennesima sterile polemica stagionale: la collocazione politica dei personaggi letterari e, nello specifico, fumettistici. Il personaggio di Pratt era stato “arruolato” dalla destra italiana, come già accaduto per l’opera di Tolkien e per molti altri. Che, per reazione opposta, erano stati scaricati dalla sinistra. Ma ogni parte politico-ideologica, dice Eco, ha compilato i propri Indici di libri proibiti, che poi erano spesso proprio quelli più ricercati, sotto banco, da chi a quell’ideologia aderiva, soprattutto fra i giovani. Così si conclude la rubrica:   «Vai tranquillo, Corto Maltese! Le belle storie (persino quelle raccontate dai filosofi) hanno questo di bello: che sono più ricche e ambigue di quanto possa capire chi stende l’indice dei libri da leggere».   La conclusione è sì in positivo, ma ribadisce che qualcuno che si preoccupa di redigere un indice lo si trova sempre. Per questo motivo l’Associazione Italiana Biblioteche promuove da qualche anno l’iniziativa Libri salvati, che si batte proprio contro ogni forma di censura. Le biblioteche del Comune di Bologna hanno aderito in varie forme all’edizione 2025, che si è svolta dal 5 all’11 maggio. La Biblioteca dell’Archiginnasio ha pubblicato sul suo canale You Tube la lettura di un brano di Martin Eden di Jack London, le cui opere vennero bruciate durante i Bücherverbrennungen, i roghi di libri avvenuti la notte del 10 maggio 1933 a Berlino e nelle principali città della Germania.
image of Claudio Rutilio Numaziano, Itinerarium (1582)
Claudio Rutilio Numaziano, Itinerarium (1582)
Si può parlare del razzismo leghista degli anni Novanta del XX secolo attraverso l’opera di un poeta gallo-romano del IV-V secolo d.C.? Eco, sulla scorta di un intervento dello storico ebreo Zvi Yavetz, lo fa in Bossi non è un gallo come me (1996). Il poeta è Claudio Rutilio Namaziano e, pur se normalmente di natura tollerante e mite, in un brano dell’opera in cui racconta il suo viaggio di ritorno da Roma alle Gallie si scaglia contro un oste ebreo, che lo ha maltratto e truffato, dicendo cose per le quali «il rabbino Toaff pianterebbe un casino che non finisce più, e con qualche ragione». Sono passati secoli ma «in un’epoca in cui si celebra il multiculturalismo (talora anche sin troppo), Bossi ci riporta molto più indietro di Rutilio Namaziano (che almeno, caro Bossi, era un gallo civilissimo come me e non un longobardo irsuto come te)».   Claudio Rutilio Namaziano, Itinerarium, Roma, Vincenzo Accolti, 1582. Collocazione: 7. L. V. 27
image of Ezio Saini, Quattro principi in esilio (1952)
Ezio Saini, Quattro principi in esilio (1952)
In Indietro Savoia! (1997) Eco si occupa del possibile rientro della famiglia Savoia dall’esilio. Ancora una volta l’attualità ci offre il destro per il recupero di eventi storici oggi in gran parte dimenticati nei dettagli. Umberto II, soprannominato “Re di maggio” in quanto il suo regno era durato un mese, si era volontariamente recato in esilio in Portogallo una volta acquisito l’esito del referendum del 2 giugno 1946, con il quale gli italiani avevano scelto la Repubblica. Questa foto, che immortala la sua partenza, è tratta dal libro Quattro principi in esilio di Ezio Saini, che racconta i primi anni di esilio della famiglia Savoia e in particolare dei quattro giovani figli di Umberto. Saini, con lo pseudonimo Italicus, aveva già raccontato i momenti immediatamente successivi alla partenza dell’ex sovrano in una serie di articoli usciti nei due mesi successivi al referendum, poi raccolti nel volume Storia segreta di un mese di regno.   Ezio Saini, Quattro principi in esilio, Roma, Corso, 1952. Collocazione: 34. C. 811
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Ezio Saini, Quattro principi in esilio (1952)
La famiglia di Umberto II sbarca a Lisbona.   Ezio Saini, Quattro principi in esilio, Roma, Corso, 1952. Collocazione: 34. C. 811
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Stemma di Casa Savoia
[*Stemma sabaudo], [Italia : s.n., 1700-1799], acquaforte 70 x 87 mm Collocazione: Cartone I 05/50
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Pasolini 42
L’articolo Capire la cronologia prende spunto da quella che Eco definisce una polemica sterile che però ritorna periodicamente di attualità: «era vero che molti esponenti della sinistra del dopoguerra erano stati fascisti?». Basta in realtà, come invita a fare il titolo della Bustina, osservare la cronologia, e quindi le date di nascita dei personaggi di cui si discute, per capire che essi erano cresciuti e vissuti sempre sotto il regime fascista - in scuole «dove si parlava loro solo del fascismo [...] in un paese totalitariamente inteso alla celebrazione di un solo regime, di una sola cultura» - e quindi in una società in cui era difficile maturare una coscienza antifascista o comuque oppositiva. All’interno dei GUF era nata una fronda, comunque interna al fascismo. Eco non lo cita, ma anche la crescita di Pier Paolo Pasolini era avvenuta sotto il regime - era nato proprio nel 1922 - e quindi le sue prime prove di intellettuale si erano realizzate all’interno degli strumenti culturali del regime. Allo stesso modo il contrasto con le idee totalitarie si era palesato proprio, in maniera paradigmatica, quando il giovane intellettuale aveva cominciato a pubblicare i suoi primi scritti sulle riviste controllate dal partito. La mostra Pasolini 42. La formazione bolognese di un giovane intellettuale analizza questo primo periodo della produzione pasoliniana, che si è svolto a Bologna, dove Pier Paolo era nato e poi tornato per gli studi superiori e universitari. I suoi contributi a «Architrave» e «Il Setaccio» sono ben noti, meno conosciuto è il suo articolo d’esordio, comparso sul numero di aprile del 1942 di «Gioventù italiana del Littorio. Bollettino del Comando federale di Bologna». Chi in quegli anni voleva iniziare un percorso intellettuale non aveva altra scelta che farlo su questi strumenti prodotti dal partito, anche se spesso il controllo era così opprimente che i contrasti nascevano all’interno delle stesse redazioni delle riviste. Dal punto di vista autobiografico Eco ricorda in un’altra Bustina, I miei temi sul Duce, quanto il clima culturale lasciasse poco spazio di libertà anche per chi, come lui, aveva 10 anni in meno di Pasolini e quindi viveva - e scriveva - nella scuola e non sui giornali. Bisogna quindi, per non cadere in polemiche sterili, tenere conto delle parole con cui si chiude Capire la cronologia:   «Non si può parlare in blocco del comportamento degli “intellettuali italiani sotto il fascismo”, come se ciascuno di questi intellettuali non avesse un atto di nascita. Italiani, esortiamoci l’un l’altro, se non alle storie, almeno alle cronologie».
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Leo Spitzer, Perifrasi del concetto di fame (2019)
Vediamo un caso da manuale di come la serendipità possa fare deragliare una ricerca verso scoperte inaspettate, curiose e capaci di catturare l’attenzione facendo dimenticare da dove si era partiti. In Come dire parolacce in società (1992) Eco si occupa di quando e come si possano dire parolacce in contesti pubblici, rilevando che oggi si è persa l’arte dell’ingiuria, che non ha più quel valore di eccezionalità che la rendeva utile e preziosa nei pochi casi in cui la si usava. Bisognerebbe allora coltivare almeno l’arte della perifrasi per mettere a punto ingiurie mascherate. La seconda parte della Bustina è quindi un florilegio di insulti sotto perifrasi, del tipo (e citiamo una delle più semplici): «Ella ha una scatola cranica che più che alla speculazione sarebbe atta alla riproduzione». Ci mettiamo quindi, con interesse limitato, alla ricerca di qualche documento che dedichi attenzione alla figura retorica della perifrasi e la nostra attenzione è attratta da questo volume. Il grande linguista Leo Spitzer, in servizio presso l’ufficio della censura postale dell’impero austro-ungarico durante la Prima Guerra Mondiale, decide di prendere nota di tutte le perifrasi che i prigionieri italiani utilizzano nelle lettere indirizzate alle famiglie per dire che patiscono la fame. Dirlo chiaramente, infatti, non era possibile, la lettera sarebbe stata appunto censurata - dallo stesso Spitzer - perché l’Austria non voleva che si diffondesse una visione negativa delle condizioni di vita dei soldati catturati. Questo materiale diventa, al termine del conflitto, una vera e propria miniera di dati da studiare per il linguista restituito alla vita civile. Ne nasce un libro curioso, interessante e allo stesso tempo tragico, che esplora questo aspetto specifico della lingua di quelle lettere che lo stesso Spitzer pubblica in un altro volume, Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918 (l’edizione originale in tedesco era uscita nel 1921). Un’occasione anche per ricordare che in Archiginnasio trova collocazione il Fondo Guerra Europea, ricco di documentazione interessante e originale sul primo conflitto mondiale.   Leo Spitzer, Perifrasi del concetto di fame. La lingua segreta dei prigionieri italiani nella Grande Guerra, Milano, Il saggiatore, 2019. Collocazione: 20. G. 6111
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Leo Spitzer, Die umschreibungen des begriffes "Hunger" im Italischen (1921)
L’edizione originale in tedesco del lavoro di Spitzer sulle perifrasi utilizzate dai prigionieri di guerra per comunicare ai famigliari che patiscono la fame.   Leo Spitzer, Die Umschreibungen des Begriffes "Hunger" im Italienischen. Stilistisch-onomasiologische Studie auf Grund von unveröffentlichtem Zensurmaterial, Halle, Niemeyer, 1921. Collocazione: 7. N. I. 75
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Le passioni nel serial TV (1994)
Oggi siamo abituati a leggere libri e ascoltare dibattiti sulle serie TV. Trent’anni fa che illustri studiosi disquisissero di Derrick e Beautiful poteva sembrare ancora una stranezza. Se quindi una Bustina del 1995, Derrick o la passione della mediocrità, ci suggerisce uno studio su questi temi, la curiosità si accende e lo andiamo a recuperare, anche solo per sfogliarlo. Eco dimostra di non avere grande stima dell’ispettore tedesco, e ancor meno del suo aiutante Harry, ma nonostante questo ne segue regolarmente le avventure, a conferma del potere attrattivo dei prodotti di massa. Due anni dopo questo articolo, in L’eugenetica non è una scienza esatta, i due poliziotti diventano il simbolo del fallimento del tentativo nazista di selezionare la razza ariana perfetta:    «Ora riflettiamo su quello che è accaduto al povero Hitler, certamente degno della nostra comprensione. Credo che si possa affermare che, se i modelli più popolari di cittadini tedeschi che oggi riconosciamo sono l’ispettore Derrick, il suo ebete aiutante e quei mezzi sifilitici che essi riescono ad arrestare solo perché sono a encefalogramma piatto, non si può dire che il progetto eugenetico nazista sia riuscito».   Le passioni nel serial TV. Beautiful, Twin Peaks, L'ispettore Derrick, Torino, Nuova ERI, 1994. Collocazione: EVANGELIST. B. 3624  
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Carlo Gemelli, Satana e il satanismo (1877)
In uno degli ultimi capitoli de Il cimitero di Praga Eco descrive un rito satanico che si conclude con un’orgia favorita da sostanze allucinatorie. Il tema era già presente ne Il nome della rosa: Salvatore viene accusato di avere avuto commercio col demonio e con la giovane popolana, a sua volta accusata di stregoneria. Nella seconda metà degli anni Novanta del ventesimo secolo i mezzi di informazione fomentano una paura delle sette sataniche che va ben oltre la realtà dei fatti. La domenica andando alla messa..., Bustina del 1996, parte ancora una volta dall’attualità per mostrare la profondità storica con cui si devono leggere questi episodi:   «Nelle ultime due settimane i giornali non ci hanno risparmiato riti d’incappucciati, e amplessi blasfemi, e satanismi di vario genere. La prossima volta che sentiremo cantare da un coro folkloristico “La domenica andando alla messa - circondata dai miei amatori...”, penseremo che si tratti naturalmente di messa nera. L’impressione che il fenomeno sia nuovo nasce solo perché la stampa se ne occupa (forse persino perché gli adepti fanno di tutto per farsi scoprire e andare a finire in prima pagina). Sappiamo benissimo che, nel corso dei secoli, popolani e intellettuali andavano al sabba, o godevano a pugnalare le ostie. È vero che sono finite sul rogo come streghe delle povere donnicciole che al massimo raccoglievano erbe medicamentose, ma che ci fossero adoratori di Satana è cosa pacifica. Perché si partecipa a riti satanici, sempre con risvolti sessuali?»   Il breve opuscolo di Carlo Gemelli, che ricostruisce il tema fin dall’antichità classica, mostra che già nel 1877 esisteva coscienza del fatto che le accuse che conducevano al rogo gli adoratori dei demoni erano pretestuose e dettate da paure irrazionali o da precisi scopi di controllo della popolazione. E spesso a dovere essere controllata era proprio, come accenna Eco, una pulsione sessuale che andava contro le regole della convenzione morale.   [Carlo Gemelli], Satana e il satanismo, Bologna, Tip. Società Azzoguidi, stampa 1877. Collocazione: 1-ST.SACRA MISCELLANEA 02, 045
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Enrica Cammarano e Letizia Strambi, Satana alle porte di Roma (1995)
Si diceva del panico satanico che si scatena in Italia (e anche in altre parti d’Europa) nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, in analogia con altri momenti storici in cui si erano verificate simili impennate dell’attenzione pubblica nei confronti di riti che nella quasi totalità dei casi erano, quando non inventati, del tutto innocui. Il volume da cui è tratta questa fotografia, riletto a distanza di 30 anni dalla sua pubblicazione e con la coscienza di come i casi “gonfiati” dalla stampa in quegli anni si siano quasi sempre risolti in una bolla di sapone, finisce per fare quasi sorridere fin dal titolo, Satana alle porte di Roma, che sembra quello di un B-movie horror (se non di una parodia dell’horror). Non si capisce d’altra parte come possa essere stata realizzata e resa pubblica una foto di questo tipo - che ha tutta l’apparenza di essere “posata” - dal momento che il rito dovrebbe, per la sua stessa natura, essere concepito per rimanere segreto e conosciuto solo dagli adepti del demonio.   Enrica Cammarano, Letizia Strambi, Satana alle porte di Roma. Un viaggio nel mondo delle messe nere, Roma, Ed. Mediterranee, [1995]. Collocazione: 35. A. 18279
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Enrica Cammarano e Letizia Strambi, Satana alle porte di Roma (1995)
Una delle grotte situate nei dintorni di Roma in cui si sono ritrovati oggetti che fanno pensare che vi possano essere state celebrate messe nere. Si notano un’immagine sacra e qualche cero incastonato nelle pareti, oltre a un fuoco spento. Sicuramente una foto più realistica della precedente, ma niente che possa suscitare paura o angoscia.   Enrica Cammarano, Letizia Strambi, Satana alle porte di Roma. Un viaggio nel mondo delle messe nere, Roma, Ed. Mediterranee, [1995]. Collocazione: 35. A. 18279
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Antonella Beccaria, Bambini di Satana (2006)
Come accade ne Il cimitero di Praga, romanzo che vuole mostrare come le parole possano falsificare la realtà fino a fare succedere quanto si teme possa succedere, la grande paura che spesso si lega ai riti satanici è quella del coinvolgimento di minorenni, in particolare bambine e bambini. La Bustina da cui siamo partiti per questa breve escursione nel satanismo - e che con buona probabilità fa riferimento agli eventi dettagliatamente descritti nel libro di cui mostriamo la copertina, anche se Eco non li nomina mai direttamente - viene pubblicata nel 1996. In questo anno i leader dell’associazione Bambini di Satana - che esiste a Bologna fin dai primi anni Ottanta e non ha mai fatto mistero del proprio culto, del tutto innocuo, per le forze demoniache - vengono accusati di violenza sessuale, anche su minori. Si apre un caso giudiziario estremamente controverso e che viene accompagnato da una campagna stampa che si accanisce sugli imputati ben prima che venga stabilita la loro colpevolezza. Colpevolezza che mai viene provata, tanto che alla fine di tutti i gradi del procedimento penale gli imputati non solo vengono assolti ma ottengono anche un cospicuo risarcimento per ingiusta detenzione. Abbiamo già visto, parlando dei casi Sofri e Braibanti, episodi gravissimi di errori giudiziari o processi condotti senza nessuna logica o evidenza. La vicenda dei Bambini di Satana, e in particolare del loro fondatore Marco Dimitri, ci interessa anche perché è strettamente legata a Bologna e contribuisce a modificare la visione della città. Da una parte l’opinione pubblica rilegge in chiave negativa quella che a lungo era stata indicata come città modello e in cui mai si sarebbe pensato potessero verificarsi casi come quelli sui quali si è imbastito il processo. Dall’altra, una volta conclusosi senza condanne l’iter giudiziario, in molti hanno visto in questi episodi l’ipocrisia di un potere che, come sempre accaduto nei secoli precedenti, voleva contrastare in maniera ingiusta e vessatoria chi non viveva secondo le regole della comune morale. Anche dopo la conclusione del processo il caso ha avuto strascichi importanti su cui riflettere, in particolare dopo la pubblicazione del volume Lasciate che i bimbi. "Pedofilia": un pretesto per la caccia alle streghe del collettivo Luther Blissett, che accusava senza mezzi termini il pubblico ministero che aveva messo sotto accusa l’associazione di avere imbastito il processo senza le prove del reato e per desiderio di protagonismo. Wu Ming 1, che faceva parte del collettivo Luther Blissett, è tornato ad occuparsi del caso Bambini di Satana in un libro che abbiamo già citato nella gallery dedicata a Il cimitero di Praga e che ritroveremo parlando de Il Pendolo di Foucault, La Q di qomplotto. QAnon e dintorni, Come le fantasie di complotto difendono il sistema, in particolare nei capitoli finali (p. 509-564). Quanto successo a Marco Dimitri e ad altri appartenenti della sua associazione è senza dubbio un caso emblematico del clima che si respirava in Italia su queste tematiche in quegli anni, in cui si verificarono diversi casi di processi contro presunti satanisti pedofili risoltisi nella maggioranza dei casi con l’assoluzione degli imputati, ma con conseguenze drammatiche per bambini e genitori. Nel 2017 il podcast Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli ha per esempio riportato al centro dell’attenzione il caso sconvolgente dei “diavoli della bassa”, verificatosi nel modenese proprio a partire dal 1997, mettendo sotto accusa anche le strutture istituzionali che dovevano gestire i casi di violenza su minore. Pablo Trincia ha anche pubblicato un libro, Veleno. Una storia vera, per raccontare questa vicenda. Il tema della pedofilia, e in particolare le reazioni spesso irrazionali che esso suscita nell’opinione pubblica, emerge nella Bustina del 1996 Perché manifestare contro i pedofili? Un messaggio da non sottovalutare.   Antonella Beccaria, Bambini di Satana, Roma, Stampa alternativa ; Viterbo, distribuzione Nuovi equilibri, [2006]. Collocazione: 17* AA. 1227
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Ritratti
Nel 1988 Eco si chiede: È importante fotografare le persone celebri? E riflette su cosa significhi fare un ritratto di una persona, cosa cambia se la persona è una celebrità o un “uomo comune”, se il ritratto è dipinto o fotografico. Si possono avere sorprese curiose incontrando una persona di cui si conosce solamente un ritratto illustre. Se si vuole approfondire il tema, in particolare relativamente al volto delle persone ritratte (o autoritrattesi, anche con i mezzi tecnologici moderni), si veda Visus. Storie del volto dall'antichità al selfie di Riccardo Falcinelli. La Biblioteca dell’Archiginnasio possiede una ricchissima collezione di ritratti, sia dipinti che fotografici, interamente digitalizzata e disponibile online. Si veda in particolare, in linea con l’interesse per le celebrità di Eco, il Fondo Antonio Cervi, critico teatrale a cavallo fra XIX e XX secolo, in cui si trovano conservati 1.642 ritratti fotografici, spesso autografati, di attori e attrici, molti dei quali erano in quel periodo vere e proprie celebrità.   [Segond Weber e Pierre Berton nella pantomima "L'enfant prodigieux"], albumina, 218 x 165 mm Collocazione: f. s. Antonio Cervi - Fotografie, b.25,1370
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«Il Don Pirlone»
La caricatura politica, dice Eco in Come la democrazia danneggia la democrazia (1998), nasce nel XIX secolo, come forma democratica di controllo del potere tramite l’irrisione del potente di turno. Nei secoli precedenti infatti «Nessuna satira politica era consentita non dico nei confronti dei faraoni ma neppure degli imperatori romani» e le prese in giro feroci erano piuttosto «armi da usare contro il nemico». Ma questa pratica democratica, continua il ragionamento l’autore, porta i potenti a difendersi creando una rete clientelare di adulatori attraverso la distribuzione di favori e regalie, pratica che va a deteriorare proprio il tessuto democratico. Un tema affascinante che ci porta a un breve viaggio nel campo della satira e della caricatura, intesa in senso letterale come rappresentazione grafica deformata e ironica tendente a evidenziare i difetti di un personaggio importante. La seconda metà del XIX secolo vede la nascita anche in Italia di periodici dedicati espressamente alla caricatura politica, come recita il sottotitolo del giornale romano «Il Don Pirlone». Il nostro gruppo di lettura lo ha già incontrato due anni fa leggendo la trilogia risorgimentale di Valerio Evangelisti, che lo cita più volte e ne descrive proprio alcune illustrazioni satiriche. In Archiginnasio esistono tre esemplari della raccolta completa del giornale. Uno di questi ha una storia particolarmente interessante, poiché è stato prima vittima di un furto, poi del bombardamento che ha colpito il palazzo il 29 gennaio 1944. Le vicende di questo volume sono raccontate nel video Libri nella tormenta: ladri e bombe in Archiginnasio (1938-2024), realizzato dalla nostra biblioteca per l’edizione 2025 dell’iniziativa regionale Quante storie nella storia.   «Il Don Pirlone. Giornale di caricature politiche», 1848-1849. Collocazione: 33. A. 91
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Caricature di Nasica
Augusto Majani (Nasica) illustra un piccolo opuscolo di promozione delle edizioni Zanichelli con caricature di importanti personaggi bolognesi. Qui vediamo l’ex sindaco Alberto Dall’Olio, ricordato soprattutto perché durante il suo mandato, nel 1902, venne deciso l’abbattimento delle mura cittadine (viene infatti definito da Nasica «della cinta... allargatore»). Uno degli esemplari di questo opsucolo custodito all’Archiginnasio si trova nel fondo che raccoglie i libri appartenuti a Gaetano Bussolari, fucilato dai fascisti nel 1944, di cui la biblioteca conserva anche i documenti archivistici. Se si sfoglia questo esemplare si riscontra una nota manoscritta che certifica che Bussolari lo aveva ricevuto in dono dalla Libreria Zanichelli, dove oggi si svolgono gli incontri del nostro gruppo di lettura.   Augusto Majani (Nasica), Forse che si forse che no. Cinematografo bolognese, Bologna, Zanichelli, [19..?]. Collocazione: BUSSOLARI. Busta 9. 1
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Lodovico Frati, Antiche caricature bolognesi (1919)
Ancora caricature bolognesi in questo breve articolo tratto dal numero del novembre 1919 del periodico «La vita cittadina» e scritto da Lodovico Frati, figlio del direttore dell’Archiginnasio Luigi Frati e a sua volta bibliotecario. In questo caso non si tratta di caricature di uomini potenti, quanto di personaggi evidentemente ritenuti caratteristici della città di Bologna. Fra questi compare anche Serafino Bernardini, distributore presso l’Archiginnasio.   Lodovico Frati, Antiche caricature bolognesi, «La vita cittadina. Rivista mensile di cronaca amministrativa e di Statistica del Comune di Bologna», V, 1919, n. 11, p. 416-421. Collocazione: 17. A. IV. 5
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Non leggere qui
Una delle sezioni del libro di Eco si intitola Quel che nell’universo si squaderna. Dal libro all’ipertesto, via Web. Raccoglie Bustine che trattano sotto diversi punti di vista quella che banalmente potremmo definire “rivoluzione informatica”, e in particolare il diffondersi dell’uso della rete. In molti articoli si avvia una riflessione sul rapporto fra mezzi di comunicazione informatici e cartacei, e nello specifico su cosa cambierà nella produzione e consumo dei libri con l’affermarsi dei testi, o ipertesti, elettronici. Oggi sappiamo che le apocalittiche previsioni della morte del libro non si sono avverate né si avvereranno sul breve periodo, ma il rapporto fra le diverse modalità di lettura è ancora più complesso che 30 anni fa. Ci sembra quindi interessante proporre i risultati del questionario realizzato dal Patto per la Lettura del Comune di Bologna relativamente alle modalità e alle esperienze di lettura. Il titolo del questionario è Non leggere qui.
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Il libro digitale. La parola agli editori
Oltre a come è cambiata la lettura con l’avvento del libro eletronico, va considerato naturalmente anche il versante della produzione dei testi. Questo libro raccoglie le discussioni tenutesi durante una serie di incontri organizzati dalle Biblioteche del Comune di Bologna in collaborazione con il corso di Laurea Magistrale in Digital Humanities and Digital Knowledge dell’Università di Bologna e con Unipol nel 2019. Il focus era incentrato sulle case editrici e sulle loro strategie legate alla produzione e commercializzazione del libro elettronico.   Il libro digitale. La parola agli editori, a cura di Maria Villano, Bologna, Biblioteca CLUEB, 2020. Collocazione: 20. G. 6400
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Il libro, oggetto tecnologico perfetto
Da Libri da consultare e libri da leggere (1994):   «I libri da leggere non potranno essere sostituiti da alcun aggeggio elettronico. Sono fatti per essere presi in mano, anche a letto, anche in barca, anche là dove non ci sono spine elettriche, anche dove e quando qualsiasi batteria si è scaricata, possono essere sottolineati, sopportano orecchie e segnalibri, possono essere lasciati cadere per terra o abbandonati aperti sul petto o sulle ginocchia quando ci prende il sonno, stanno in tasca, si sciupano, assumono una fisionomia individuale a seconda dell’intensità e regolarità delle nostre letture, ci ricordano (se ci appaiono troppo freschi e intonsi) che non li abbiamo ancora letti, si leggono tenendo la testa come vogliamo noi, senza imporci la lettura fissa e tesa dello schermo di un computer, amichevolissimo in tutto salvo che per la cervicale. Provate a leggervi tutta la Divina Commedia, anche solo un’ora al giorno, su un computer, e poi mi fate sapere. Il libro da leggere appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta».   Se in questo brano c’è qualcosa di superato, è la descrizione di ciò che non si può fare con un testo elettronico, che oggi ha trovato supporti ben più idonei del computer a renderne più comoda la lettura. E anche leggere la Divina Commedia sullo schermo di un computer oggi non ci sembra più impresa fantascientifica. Ciò che però non è superato e ha ancora piena validità, è quello che si può fare con i libri, oggetto tecnologicamente perfetto. Poche righe dopo Eco aggiunge:   «L’umanità è andata avanti leggendo e scrivendo prima su pietre, poi su tavolette, poi su rotoli, ma era una fatica improba. Quando ha scoperto che si potevano rilegare insieme dei fogli, anche se ancora manoscritti, ha dato un sospiro di sollievo. E non potrà mai più rinunciare a questo strumento meraviglioso».   Il passo decisivo per ottenere un oggetto di lettura perfetto è stato rilegare insieme i fogli. La legatura dei fascicoli a formare un volume per secoli ha rappresentato allo stesso tempo un’arte e una pratica tecnologica da studiare, analizzare e migliorare. Invitiamo a sfogliare la banca dati che raccoglie le legature storiche presenti nella nostra biblioteca. Questa immagine - un particolare di Il romanzo di una cucitrice di Umberto Boccioni - illustra in maniera precisa e evocativa allo stesso tempo le parole di Eco: l’equilibrio “ergonomico” di una persona che legge, la possibilità di farlo sempre e in ogni luogo, il rapimento della lettrice in un’altra dimensione che può avvenire quando il corpo trova la sua posizione più naturale. Questa riproduzione del quadro di Boccioni si trova nel volume La città dell'editoria. Dal libro tipografico all'opera digitale, 1880-2020, pubblicato nel 2001. L’incongruenza fra la data presente nel sottotitolo e la data di pubblicazione non è un errore, ma nasce dal fatto che l’ultimo capitolo si proietta in quello che al momento dell’uscita del libro era il futuro, come suggerito dal suo titolo: La “leggerezza” del mondo digitale. Il sapere viaggerà con i bit. Giampietro Lotito, autore di questa sezione del volume, che è il catalogo di una mostra, affida le righe finali del suo intervento proprio a Umberto Eco:   «Nel libro Diario minimo invece Umberto Eco, allora giovanissimo studioso, narra del ritrovamento di un testo che in un convegno di un lontanissimo futuro, finalmente svelava ai posteri i segreti della civiltà del Novecento. Il racconto allora spiega come dal testo si è risaliti alle abitudini, al modo di pensare e di vivere degli abitanti del pianeta nel XX secolo. Il documento ritrovato era la raccolta dei testi delle canzoni del Festival di Sanremo degli anni cinquanta! Questi due esempi un po’ paradossali possono dare l’idea di come una cattiva conservazione o scelta delle informazioni potrebbe far passare nel tempo cose non particolarmente importanti o farne perdere di fondamentali, ma con la consapevolezza raggiunta dall’uomo dell’importanza del sapere e delle informazioni, non sarà un problema da ritenere serio per il futuro. Dopotutto l’uomo è sopravvissuto alla distruzione della Biblioteca di Alessandria e all’Indice, sopravviverà anche alla trasformazione degli atomi in bit» (ivi, p. 175).   Sulla rappresentazione pittorica o fotografica della figura femminile mentre legge si vedano Le donne che leggono sono sempre più pericolose di Stefan Bollmann e l’articolo di Piero Meldini, Libri, quadri e donne lettrici. Da Lorenzetti al Novecento, «Biblioteca di via Senato, Milano. Mensile di bibliofilia», XII, marzo 2020, n. 3, p. 44-50. Sull’argomento si veda anche il libro di Tiziana Plebani Il genere dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo ed età moderna.   La città dell'editoria. Dal libro tipografico all'opera digitale, 1880-2020, a cura di Giorgio Montecchi, Milano, Skira, 2001. Collocazione: 20. C. 1467
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Jan Tschichold, La forma del libro
Sulla perfezione della forma del libro, oltre a quanto letto nell’immagine precedente, si legga anche la Bustina del 1998 Ma ne abbiamo inventate davvero tante? Sul tema proponiamo questo libro, uscito in due diverse edizioni in anni successivi per due diversi editori - il contenuto è lo stesso, cambiano solo le introduzioni - a testimoniare la sua importanza per chi vuole avvicinarsi allo studio di come si “costruisce” un libro. I testi raccolti sono stati scritti nell’arco di 30 anni da Jan Tschichold e si occupano di tutti gli aspetti tipografici: composizione della pagina (scelta dei caratteri, dimensioni della pagina e dello spazio occupato dalla scrittura in essa, distribuzione delle immagini, ecc.), selezione del materiale da utilizzare (tipo di carta, inchiostro), dimensioni da dare al volume per renderlo facilmente maneggiabile. Perché l’oggetto libro è potenzialmente un oggetto tecnologico perfetto, dice Eco, ma bisogna saperlo realizzare per concretizzare questa potenzialità. Gli argomenti trattati da Tschichold sono molto tecnici ma oggi, ci avverte l’introduzione dell’edizione del 2002, possono trovare anche un pubblico non specialistico, visto che con i mezzi informatici ognuno si trova davanti alla necessità di comporre una pagina di testo rendendola leggibile il più comodamente possibile .   Jan Tschichold, La forma del libro. Venticinque risposte sul libro e la tipografia, 2. ed. italiana, a cura di Giuseppe Cantele e Franco Zabagli, [Dueville], Ronzani, 2022. Collocazione: 20. F. 5288   Jan Tschichold, La forma del libro, Milano, Sylvestre Bonnard, 2003. Collocazione: CONS. BIBLIOGRAFIA 38-8
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Ricordate il librogame?
L’ipertesto è la grande novità tecnologica degli anni Novanta in tema di scrittura di un testo, perché offre diverse possibilità di creare diramazioni che superino la linearità della semplice scrittura su carta. Permette quindi a ognuno di crearsi il proprio percorso di lettura e quindi una propria storia. Oppure si potrebbe «incominiciare un nuovo Guerra e pace e farlo continuare da altri...» (Storie già fatte e storie da fare, 1995). Questa nuova modalità di comporre testi, dice Eco in Non preoccupatevi per l’ipertesto (1993), diventa anche il più grande spauracchio per gli scrittori “tradizionali” di romanzi (se avvertite l’eco degli odierni timori per la crescita dell’uso dell’Intelligenza Artificiale siete nel giusto, la discussione di oggi ricalca quella che avveniva allora). Potrà ancora essere interessante per un lettore un semplice e lineare romanzo? Eco rassicura gli amici scrittori: sì, continuerà ad esserlo. Perché il lettore non vorrà mai perdere la tensione che si gusta durante la lettura di un romanzo, quando tutte le possibilità sono aperte e il destino dei personaggi è nelle mani dell’autore.   «...durante la lettura sei nel pieno dell’inchiesta e il copevole è l’autore. E tu vuoi che la gente paghi per decidere se Renzo sposerà Lucia. Magari una volta, per gioco, come si va al tirasegno o al Tre Palle un Soldo. Ma leggere storie è un’altra storia».   Infatti un libro in cui si può decidere che piega deve prendere la storia finirà per essere chiamato librogame, che è anche il titolo della collana a cui appartiene questo volume, scelto a caso fra i molti che sono usciti durante il breve periodo in cui ebbero successo, soprattutto in fascia pre-adolescenziale, fra fine degli anni Ottanta e inizio dei Novanta. Libri in cui, come ripete due volte la quarta di copertina, «La protagonista sei tu». E puoi scegliere a ogni pagina cosa fare o non fare. Che per un po’ è una cosa divertente ma alla lunga, come ci ha detto Eco, è meglio essere semplicemente la lettrice.   Pat Hewitt, Trance, illustrato da Gareth Jones, Trieste, E. Elle, 1987. Collocazione: 35. RB. 2837
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Peter Mendelsund, Che cosa vediamo quando leggiamo (2020)
In Allegria! M’illumino d’immenso (1992) Eco sottolinea quanto sia importante, per la comprensione di un testo, capire il contesto in cui esso si colloca. Propone un esempio: «Turbata libertà degli incanti» può essere il verso di una poesia oppure il «titolo di un articolo del Codice Rocco sulla turbativa d’asta». Un esempio di come anche la lettura di un testo romanzesco avvenga tenendo conto in maniera naturale - e su scale diverse - del contesto in cui le parole si trovano lo offre Peter Mendelsund in un libro affascinante, Che cosa vediamo quando leggiamo, che si interroga su come funzioni la nostra facoltà immaginativa - cioè la nostra capacità di creare immagini mentali - mentre leggiamo un testo scritto. Questa bizzarra figura potrebbe essere il risultato immaginativo di una lettura dell’incipit dell’Ulisse di Joyce - «Solenne e paffuto Buck Mulligan» - fatta tenendo separata una parola dall’altra, senza metterle in relazione fra loro. Mendelsund spiega come questo può, ipoteticamente, avvenire. Fra le tante cose sbagliate di una lettura fatta in questo modo riconosciamo un errore su cui Eco gioca in Dell’importanza delle lettere maiuscole (1996): leggere una parola come nome comune - in Mendelsund «buck», nella Bustina appena citata «eco» - invece che come nome proprio - «Buck» e «Eco». Il contesto - quello grafico, che ci permette di vedere la lettera maiuscola, ma anche quello del contenuto, se per caso stessimo ascoltando un audiolibro - indirizza il lettore facendogli scegliere l’opzione “nome comune” o l’opzione “nome proprio”. Perché, come dice Mendelsund subito dopo l’esempio citato, le parole non si leggono mai una per volta, ma all’interno di un flusso che crea un contesto. Per meglio chiarire il concetto, Mendelsund lo estremizza e scrive che le parole non si leggono una alla volta mettendo una sola parola in ogni pagina, per costringerci a prendere coscienza di quanto sia innaturale una lettura fatta in queste condizioni.   Peter Mendelsund, Che cosa vediamo quando leggiamo. Una fenomenologia. Con illustrazioni, Mantova, Corraini, 2020. Collocazione: 20. G. 6041
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Peter Mendelsund, Che cosa vediamo quando leggiamo (2020)
In precedenza abbiamo parlato della forma concreta, fisica, di un libro. Mendelsund mostra che anche il contenuto di un libro - anzi di un testo narrativo, quindi una storia - può assumere una forma. Ne vediamo qui alcuni esempi, costruiti sulla base di un grafico che tiene conto dello sviluppo della storia e della maggiore o minore positività degli eventi. L’autore dice che già Sterne aveva fatto esperimenti di rappresentazione grafica di una storia, ma l’idea di costruire grafici sulla base della fortuna/sfortuna presenti in una trama viene da una conferenza di Kurt Vonnegut jr., che non a caso si intitola Shape of Stories.   Peter Mendelsund, Che cosa vediamo quando leggiamo. Una fenomenologia. Con illustrazioni, Mantova, Corraini, 2020. Collocazione: 20. G. 6041
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Archeologia informatica
«Quanto ai manuali venduti a caro prezzo da editori indipendenti, o sono costruiti a misura di stupido, e perdono dieci pagine a spiegarvi che se schiacciate il bottone di accensione lo schermo si riempirà come per miracolo di immagini colorate, ciò che difficilmente accadeva con la vostra vecchia penna stilografica, oppure sono di ottocento pagine e nell’indice elencano puntigliosamente tutto, meno la voce che state cercando». La verità, solo la verità (1996)   Eco è come Stefano Belbo, protagonista di Il pendolo di Foucault: gioca con il computer, fa esperimenti, scopre pregi e difetti delle diverse possibilità che la nuova tecnologia gli offre (si veda MAC vs DOS, 1994), cerca di usarlo al meglio ma è anche disposto a giocarci per scoprirne il funzionamento (Come giocare con Altavista, 1998). Lo abbiamo già detto: faceva allora con il computer e la Rete quello che facciamo oggi per esplorare le potenzialità dell’Intelligenza Artificiale. Non sappiamo cosa ci riserverà l’informatica fra 30 anni, ma se è vero che il futuro si capisce studiando il passato, è importante non perdere memoria di quello si faceva 30 anni fa. Anche questo è il compito delle biblioteche come l’Archiginnasio. In maniera, di nuovo, del tutto casuale, scegliamo questo manuale come monito a non dimenticare gli “antichi” documenti dell’informatica. Anche se lunghi, per l’esattezza, 853 pagine.   Kris Jamsa, DOS. Guida completa, Milano, McGraw-Hill, 1988. Collocazione: 35. B. 8010
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Biblioteca della memoria (1998)
Nell’immagine la copertina del catalogo della mostra Biblioteca della memoria, con prefazione di Umberto Eco, che ne parla in Ricordate tutti i sette nani? (1998). Cogliamo lo spunto per vedere nelle prossime immagini due opere dedicate all’ars memoriae e in particolare per gustare quella che Eco definisce la «meraviglia delle loro incisioni spesso surreali».   Università degli Studi della Repubblica di San Marino, Biblioteca della memoria. Opere manoscritte e a stampa fino al 1800 appartenenti al fondo Young sulla memoria e la mnemotecnica, schede a cura di Paolo Pampaloni, San Marino, Edizioni del Titano, 1998. Collocazione: MISC. A. 2011
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Giordano Bruno, De umbris idearum (1582)
Giordano Bruno si è occupato di mnemotecnica in diverse sue opere, fra cui il De umbris idearum, da cui è tratta questa ruota mnemonica. Il suo complicato funzionamento - che per alcuni studiosi sottende a una concezione magica dell’ars memoriae - è spiegato in un volume che raccoglie e commenta tutte le incisioni presenti nelle edizioni a stampa delle opere di Bruno, intitolato Corpus iconographicum.   Giordano Bruno, De umbris idearum, Parigi, Gilles Gourbin, 1582. Collocazione: 16. i. I. 18
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Giordano Bruno. Ruote mnemoniche
Il ponderoso volume del Corpus iconographicum di Giordano Bruno, citato nell’immagine precedente, ha come allegato una cartella in cui sono contenute due ruote mnemoniche realizzate con lamelle circolari sovrapposte, in modo che possano essere utilizzate proprio come ipotizzava il filosofo-predicatore. Questa - di cui non è possibile rendere in immagine la tridimensionalità - riproduce la ruota vista in precedenza, aggiungendo i colori che erano fondamentali nella concezione dell’ars memoriae proposta da Bruno.   Giordano Bruno, Corpus iconographicum. Le incisioni nelle opere a stampa, catalogo, ricostruzioni grafiche e commento di Mino Gabriele, Milano, Adelphi, 2001. Collocazione: 20. D. 3984
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Giordano Bruno. Ruote mnemoniche
Un’altra ruota mnemonica a lamelle circolari contenuta nella cartella allegata al Corpus iconographicum di Giordan Bruno, anche questa proveniente da De umbris idearum.   Giordano Bruno, Corpus iconographicum. Le incisioni nelle opere a stampa, catalogo, ricostruzioni grafiche e commento di Mino Gabriele, Milano, Adelphi, 2001. Collocazione: 20. D. 3984
image of Jan Paëpp, Eisagōgē seu Introductio facilis in praxim artificiosae memoriae (1618)
Jan Paëpp, Eisagōgē seu Introductio facilis in praxim artificiosae memoriae (1618)
Pure gli alfabeti figurati possono fungere da supporto alla memoria. Ne vediamo uno concepito da Jan Paëpp nel XVII secolo. Anche questo autore propone una sua ruota mnemonica, come è possibile vedere in queste pagine in cui sono meglio dettagliate le tavole alfabetiche.   Jan Paëpp, Eisagōgē seu Introductio facilis in praxim artificiosae memoriae, Lione, Barthélemy Vincent, 1618. Collocazione: 9. NN. IV. 44. op. 3  
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Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione (1999)
La Bustina del 1997 L’Opus Dei smentisce che io sia l’Anticristo! sembra tratta dalle pagine de Il cimitero di Praga. Un articolo scherzoso di Rino Camilleri pubblicato sulla rivista «Studi Cattolici», solitamente associata all’Opus Dei, era stato preso sul serio dagli organi di stampa, che avevano diffuso la notizia che l’Opus Dei riteneva che Umberto Eco fosse l’Anticristo. Era stato necessario fare seguire una smentita. Ci sarebbe da farsi una risata se Eco nella Bustina non ricordasse che un altro collaboratore della rivista, Maurizio Blondet, aveva pubblicato il volume di cui vediamo la copertina, «in cui si provava come la casa editrice Adelphi fosse una istituzione filo-giudeo-massonica-satanista». E non c’era ombra di ironia nelle parole di Blondet. La quarta di copertina del libro di Blondet parla di numerose ristampe nel giro di pochi anni. Non conoscendo la tiratura di queste ristampe, potrebbe trattarsi di semplice e banale strategia di marketing. Ma Eco, che conosce bene questo settore editoriale, avendone trattato ampiamente, pur se in forma romanzesca, ne Il pendolo di Foucault, la vede diversamente: «le mie lunghe frequentazioni con la bibliografia del complottismo internazionale, dall’abate Barruel ai Protocolli dei Savi di Sion, mi ha persuaso che questo tipo di letteratura spesso fiorisce perché è economicamente redditizia, dato che esiste un ampio pubblico di esaltati, occultisti, neonazisti e deliranti sfusi». Questi temi sono di lunga durata per il nostro autore, nel passato come negli anni a venire, se si considera che Il cimitero di Praga arriverà 13 anni dopo questa Bustina.   Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione. Strategie culturali del potere iniziatico, 3. ed., Milano, Ares, stampa 1999. Collocazione: EVANGELIST. A. 445
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Francesco Attardi, Filosofia dell'immortalità (1875)
Nel 1990 Eco pubblica una Bustina dedicata a «un genere saggistico che si può definire come storiografia dei folli letterari, e che si occupa di autori “matti”, non solo nell’ambito della letteratura ma anche delle scienze». Il titolo di questo articolo è proprio I folli letterari e nella prima parte Eco vi elenca alcuni testi che sono veri e propri repertori di follie legate ad opere scritte. Si passa poi ad alcuni esempi di testi folli, fra i quali - in mezzo a nomi ben più conosciuti come «Socrate, Newton, Poe e Walt Whitman» - viene citata questa Filosofia dell’immortalità dettata in brevi lezioni di Francesco Attardi, che entra in “quota follia” perché l’autore analizza e discute in tono serio e razionale la «possibilità dell’abolizione della morte sia violenta che naturale».   Francesco Attardi, Filosofia dell’Immortalità dettata in brevi lezioni, Palermo, Uff. tipogr. diretto da G. Bondi, 1875. Collocazione: 9. Filosofia moderna. Caps. II, n. 45
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Chrisostome Matanasius, Le chef-d'œuvre d’un inconnu. Tome premier (1758)
Libri o autori facilmente classificabili nel campo della follia non si trovano solo nella Bustina prima citata, ma sparsi un po’ in tutto il volume. Anche perché, non bastassero i testi reali, Eco ne inventa di inesistenti, riproponendo la sua «antica ma immarcescibile decisione di proporre ogni tanto alcune recensioni immaginarie». Succede nella Bustina del 1992 La supposta e i limiti dell’interpretazione - si ricordi che I limiti dell’interpretazione è il titolo di un’opera di Eco del 1990 - in cui viene recensita l’opera filosofica Aspetti iniziatici della supposta (o meglio, per rispettare l’edizione originale, L’initiation suppositoire). Anche La galassia Pan di Crabe Backwards (in Il trionfo della tecnologia leggera, 1996) è una gustosa invenzione per introdurre, in linea col fantasioso nome dell’autore, il discorso di come in alcuni casi la tecnologia progredendo non faccia altro che tornare sui propri passi. Ma anche quando consulta cataloghi di libri antichi, come in Un trattato sugli stuzzicadenti (1993), Eco trova testi folli come quello da cui nasce il titolo dell’articolo, Du Cure-dent et de ses inconvénients di Edmond Andrieu. O come questo, citato alla fine della Bustina sopra menzionata, Le chef-d'œuvre d’un inconnu. Pöeme heureusement découvert et mis ou jour, avec des Remarques savantes et recherchées, par M. le Docteur Chrisostome Matanasius, «un libro in cui il materiale prefatorio, per non dire delle postfazioni, e delle risposte alle risposte (in lingue diverse, con maccheroniche traslitterazioni dal francese in ebraico), è quasi più lungo del testo vero e proprio, il quale fa il verso alle opere di erudizione. Infatti d’altro non si tratta che di un elefantiaco commento a una canzone popolare di quaranta versi». Due volumi, per un totale di 600 pagine circa, costruite attorno a quei quaranta versi. Sia il frontespizio del primo volume che quello del secondo sono occupati dall’elenco del materiale paratestuale, che in questo caso sovrasta e sommerge il testo vero e proprio.   Le chef-d'œuvre d’un inconnu. Pöeme heureusement découvert et mis au jour, avec des Remarques savantes et recherchées, par M. le Docteur Chrisostome Matanasius, 2 vol., Marc Michel Bousquet & C., 1758. Collocazione: 9. Q. IV. 47-48
image of Chrisostome Matanasius, Le chef-d'œuvre d’un inconnu (1758)
Chrisostome Matanasius, Le chef-d'œuvre d’un inconnu (1758)
La prima strofa del capolavoro di uno sconosciuto. Le strofe sono cinque, per un totale di quattro pagine più un breve spartito. Questo è il canto popolare attorno al quale Chrisostome Matanasius costruisce due folli volumi di commenti e paratesto.   Le chef-d'œuvre d’un inconnu. Pöeme heureusement découvert et mis au jour, avec des Remarques savantes et recherchées, par M. le Docteur Chrisostome Matanasius, 2 vol., Marc Michel Bousquet & C., 1758. Collocazione: 9. Q. IV. 47-48
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Giovanni Papini, Gog (1931)
A Gog, di Giovanni Papini, Eco dedica un’omonima Bustina, colpito dalla coincidenza di avere trovato e acquistato su una bancarella la prima edizione del libro (1931) - più volte letto in gioventù - pochi mesi prima che questo venisse ripubblicato su iniziativa di Enzo Siciliano, dopo qualche decennio in cui mancava dal circuito commerciale (e in questo oblio editoriale tornerà dopo l’edizione del 1995). Eco vede nelle pagine di Papini un’anticipazione di molte cose che avrebbero rivoluzionato il mondo dell’arte nei decenni successivi alla sua pubblicazione: «un concerto di John Cage, l’architettura di Brasilia e il postmoderno, il postlacanismo, l’arte poverissima dell’effimero, e ogni tipo di performance». Vi vede anche un antisemitismo che ricalca lo schema dei Protocolli dei Savi di Sion, anche se «riscritti da un uomo che prova un’attrazione intellettuale profonda per la cultura di cui parla».   Giovanni Papini, Gog, Firenze, Vallecchi editore, [stampa 1931]. Collocazione: 4. P. IV. 45   Giovanni Papini, Gog, Firenze, Giunti, 1995. Collocazione: 20. K. 2559
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Street Art: Banksy & co.
Dalla Bustina del 1997 Etica, estetica e Aerosol cogliamo lo spunto per ricordare un importante episodio accaduto a Bologna. Nel 2016 venne organizzata in città la grande mostra Street Art: Banksy & Co. L’arte allo stato urbano. Per realizzarla alcuni importanti graffiti vennero staccati dai muri sui quali erano stati dipinti e riposizionati all’interno dei locali in cui si teneva l’esposizione. Nacquero grandissime polemiche, che toccavano anche alcuni degli argomenti trattati da Eco. In particolare ci furono proteste da parte di alcuni writers che vedevano come un tradimento lo sradicamento di queste opere d’arte dal loro ambiente naturale e la loro “museificazione”, pratica contraria all’ideologia del graffitismo. La protesta più clamorosa fu quella di Blu, forse il più importante e conosciuto - pur se anonimo - writer italiano, che coprì con vernice grigia le proprie opere bolognesi. Il lavoro più importante che venne cancellato fu l’enorme e complesso graffito che ricopriva un’intera parete del centro sociale XM24 di via Fioravanti, tradizionalmente denominato Occupy Mordor perchè vi era rappresentata Bologna come il malvagio regno de Il signore degli anelli, attorniata da schiere di combattenti che come nelle opere di Tolkien si scontravano in campo aperto per la conquista del territorio. Un’allegoria di un’opposizione ormai insanabile fra il potere istituzionale e le componenti più ribelli e non allineate del tessuto socio-culturale del capoluogo emiliano, che avrebbe portato qualche anno più tardi alla chiusura del centro sociale. Quel capolavoro venne cancellato in una notte dallo stesso artista che lo aveva creato, con un’azione di protesta di incredibile impatto visivo e comunicativo. Sarebbe interessante e proficuo analizzare cosa è successo nei quasi 10 anni trascorsi da quella notte nel rapporto fra Bologna e la street art, ma il discorso ci porterebbe lontano. Chiudiamo quindi la parentesi proponendo una sintesi video-testuale della serata del 14 aprile 2013 in cui Wu Ming 4, fra i maggiori esperti tolkieniani in Italia e non solo, raccontò quel capolavoro scomparso davanti a un pubblico di centinaia di persone.   Street Art: Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, a cura di Luca Ciancabilla, Christian Omodeo, con Sean Corcoran per la sezione di New York, City as canvas: graffiti art from the Martin Wong collection, Bologna, Bononia University Press, 2016. Collocazione: 20. X. 1679
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Carlo Alberto Abetti, L'industria dei fiammiferi e del fosforo (1909)
È complicato trovare una conclusione adeguata per un lavoro che aveva come scopo quello di rendere, almeno minimamente, la complessità e varietà di argomenti che si racchiudono nelle più di 300 pagine de La Bustina di Minerva, libro che per sua stessa natura non ha un inizio e una fine. Chiudiamo allora in maniera circolare, tornando all’inizio, cioè al titolo della rubrica. D’altra parte, se Eco si interessa a un trattato sugli stuzzicadenti, non vediamo niente di strano nel fare una breve ricerca sui fiammiferi. Quella che vedete infatti è una macchina manuale per la produzione di fiammiferi. Anzi, «per ottenere stecchini a sezione □» - come apprendiamo alla pagina 104 del manuale Hoepli L’industria dei fiammiferi e del fosforo di Carlo Alberto Abetti - ai quali si aggiunge materiale infiammabile per ottenere quelli che oggi, utilizzando il nome di una delle industrie che li produceva, chiamiamo “minerva”.   Carlo Alberto Abetti, L'industria dei fiammiferi e del fosforo, Milano, U. Hoepli, 1909. Collocazione: CdF CONSULT. M-H 1
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