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Album "Il nome della rosa"

In questa gallery raccogliamo documenti di varia natura che illustrano la genesi e la successiva vita editoriale del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, che fanno riferimento agli eventi e ai temi trattati nell’opera o che possono avere fornito una base informativa per l’autore. Riguardo a questo punto dobbiamo mettere le mani avanti (come non abbiamo mai fatto per gli altri libri letti dal Gruppo di lettura) per denunciare fin da ora che in alcune occasioni - sempre dichiarate - ci siamo divertiti ad azzardare e a proporre ipotesi che non hanno nessuna pretesa di essere dimostrate o dimostrabili. Ma se si fa una rassegna anche minima dei numerosi saggi o articoli dedicati al romanzo ci si accorge che gli stessi critici di professione hanno spesso azzardato e suggerito ipotesi poco fondate sulle fonti di Eco, tanto che lui stesso - lo vedremo - ha in alcuni casi dovuto stupirsi di quanto leggeva e, se lo riteneva necessario, rettificare. Dunque questa non vuole essere un’analisi scientifica ed esaustiva di fonti e documenti utilizzati dall’autore né tantomeno un’interpretazione del testo letterario (quando abbiamo presentato un’interpretazione critica è perché altri l’avevano già proposta e ci sembrava utile discuterne). Questo è il resoconto di un’esperienza di lettura, che si prende la libertà di azzardare un gioco - quello della ricerca di fonti, citazioni, allusioni - che è d’altra parte ben giustificato e anzi incoraggiato sia dall’Eco Autore Empirico che dall’Eco Autore Modello (riprendiamo una terminologia ben diffusa e presente in un saggio che incontreremo spesso, Interpretazione e sovrainterpretazione). Per noi bibliotecari-lettori un invito a nozze che non potevamo rifiutare.

Dove non diversamente specificato, l’indicazione delle pagine del romanzo citate si riferisce alla prima edizione, pubblicata nel 1980. La paginazione è rimasta inalterata nelle numerose ristampe Bompiani che non facciano parte di una specifica collana, comprese quelle a cui sono state aggiunte le Postille a Il nome della rosa (nella gallery forniremo maggiori informazioni sulla vita editoriale del testo).

I documenti utilizzati sono quasi totalmente conservati e consultabili presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Salvo dove diversamente specificato la collocazione indicata è quindi relativa a questa biblioteca.

immagine di Umberto Eco in Archiginnasio (2015)
Umberto Eco in Archiginnasio (2015)
Ci sembra doveroso, all’inizio di un percorso di lettura che ci accompagnerà per sei mesi, iniziare con un’immagine che ritrae Umberto Eco nella Sala dello Stabat Mater della Biblioteca dell’Archiginnasio. La fotografia è stata scattata il 14 febbraio 2015 durante la presentazione di Numero zero, ultimo romanzo pubblicato dallo scrittore prima della sua morte, avvenuta l’anno successivo. Altre foto di ospiti illustri della biblioteca possono essere viste nella sezione Volti e persone della mostra del 2019 Augustissima Musarum Domicilia e nel video I nostri ospiti.
immagine di Dedica autografa di Umberto Eco a Luciano Anceschi
Dedica autografa di Umberto Eco a Luciano Anceschi
La copia di Sette anni di desiderio posseduta dall’Archiginnasio e presente nel Fondo librario ANCESCHI riporta la dedica autografa dell’autore a Luciano Anceschi.   «Ci sono casi in cui una singola occorrenza di un tipo anquisisce per alcuni utenti un valore particolare, per una o più delle seguenti ragioni. [...] (iii) Associazione evidente. I bibliofili assegnano un valore particolare agli esemplari che portano la firma dell’autore o qualsiasi altro segno di appartenenza a persona famosa (ovviamente, questi elementi possono essere contraffatti a loro volta)» (Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, p. 167).   Umberto Eco, Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani, 1983. Collocazione: ANCESCHI A. 59, 51
immagine di Umberto Eco, De Bibliotheca (1981)
Umberto Eco, De Bibliotheca (1981)
La raccolta di saggi Sette anni di desiderio citata nell’immagine precedente contiene un testo che ci permette di entrare nel romanzo attraverso uno dei suoi luoghi e una delle sue tematiche principali e che ci sta particolarmente a cuore: le biblioteche e la loro funzione nella trasmissione del sapere. Si tratta di De Bibliotheca, titolo di un intervento tenuto da Eco il 10 marzo 1981 a Milano in occasione dei festeggiamenti per i 25 anni di attività della Biblioteca Comunale di quella città nella sede di Palazzo Sormani. L’intervento, leggibile integralmente online, era poi stato pubblicato alla fine di quell’anno in un opuscolo di cui vedete la copertina a fianco. Uno dei temi portanti del discorso di Eco riecheggia molti passi del romanzo pubblicato l’anno precedente, in particolare quando le sue parole criticano - in maniera ironica, elaborando un «modello negativo, in 21 punti, di cattiva biblioteca» - le difficoltà di accesso ai documenti e di uso delle biblioteche spesso da lui incontrate, in particolare in Italia. Il dilemma di fondo dell’opuscolo quindi - il sapere deve essere tenuto segreto e inaccessibile oppure diffuso il più possibile - è uno di quelli che spesso tornano nelle discussioni fra Guglielmo e Adso e che sono alla base di tutta la trama del romanzo, al cui centro sta appunto un libro che secondo Jorge da Burgos non deve essere letto (e conservato solo se le condizioni di inaccessibilità sono più che sicure). Eco fornisce anche, di contrasto, due esempi di biblioteche virtuose, proprio perchè capaci di rendere più facile e meno schematico l’accesso ai documenti. Si tratta di due biblioteche straniere, «la Sterling Library di Yale e la nuova biblioteca di Toronto». All’intervento di Eco risponde Alfredo Serrai, uno dei più importanti studiosi di biblioteconomia italiani, con l’articolo De «De bibliotheca» ovvero i diritti, e non, degli utenti. Destreggiandosi fra l’evidente fastidio per le critiche al sistema bibliotecario italiano e la consapevolezza che alcune di queste hanno ben ragione d’essere, il prestigio dell’interlocutore e la sua invasione di un campo che non gli compete dal punto di vista più strettamente tecnico, Serrai precisa che ben pochi dei rilievi mossi da Eco riguardano questioni scientificamente biblioteconomiche. A questi risponde e, se necessario, li corregge. Il resto del discorso del professore-romanziere attiene invece ad aspetti più ampiamente culturali e quindi accettabili e discutibili, oppure ad aspetti logistici della gestione di una biblioteca che, Serrai lo ribadisce più volte, difficilmente vengono compresi proprio da quegli utenti - docenti, ricercatori, ecc. - che hanno maggiore dimestichezza con la pratica della ricerca. Utenti che spesso, e Serrai fa esempi tratti dai secoli passati, hanno anche fatto pesare la propria autorità nello squalificare il lavoro necessario a organizzare e gestire una raccolta documentaria ampia e complessa.   Umberto Eco, De bibliotheca, Milano, Comune di Milano, 1981 (stampa 1982). Collocazione: 7. K. V. 60/6   Alfredo Serrai, De «De bibliotheca» ovvero i diritti, e non, degli utenti, «Accademie e biblioteche d’Italia», LI, 1983, n. 3, p. 190-200. Collocazione: 19/297
immagine di Umberto Eco, Il nome della rosa (1980) - Sovracoperta
Umberto Eco, Il nome della rosa (1980) - Sovracoperta
Il nome della rosa esce in libreria nell’ultima settimana dell’ottobre 1980 per Bompiani, editore di gran parte dei libri precedenti di Eco e con il quale lo studioso collabora da anni, curando e proponendo diversi progetti editoriali. La copertina non è illustrata, mentre la sovracoperta riporta l’immagine di un labirinto che, lo si capirà leggendo il testo, vuole alludere alla biblioteca dell’abbazia. Vale la pena capire che cosa rappresenta realmente l’immagine, leggendo la nota che la accompagna:   In copertina lo schema del labirinto che appariva sul pavimento della cattedrale di Reims. A pianta ottagonale, recava ai quattro ottagoni laterali l’immagine dei maestri muratori, coi loro simboli, e al centro - si dice - la figura dell’arcivescovo Aubri de Humbert che pose la prima pietra della costruzione. Il labirinto fu distrutto nel XVIII secolo dal canonico Jacquemart perché gli dava fastidio l’uso giocoso che ne facevano i bambini i quali, durante le funzioni sacre, cercavano di seguirne gli intrichi, per fini evidentemente perversi.   Se fossimo stati più attenti, avremmo conosciuto il movente degli omicidi prima ancora di iniziare a leggere il romanzo.   Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980. Collocazione: CAGLI F. 140 Nelle biblioteche del Comune di Bologna il romanzo è disponibile anche in formato ebook e audiolibro digitale o su compact disc.
immagine di La mappa della biblioteca
La mappa della biblioteca
Proprio la risoluzione dell’«enigma del labirinto» (p. 213) è parte decisiva nella comprensione della trama delittuosa, tanto che il labirinto diventa simbolo della ricerca della verità, sul piano terreno come su quello spirituale:   «“Così nessuno, salvo due persone, entra all’ultimo piano dell’Edificio...” L’Abate sorrise: “Nessuno deve. Nessuno può. Nessuno, volendolo, ci riuscirebbe. La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodice. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno. Potreste entrare e potreste non uscire. E ciò detto, vorrei che vi adeguaste alle regole dell’abbazia”» (p. 46).   Eco introduce nella narrazione molti degli oggetti di studio di cui si è occupato negli anni precedenti o che affronterà nel prosieguo della propria carriera di studioso. Il diffondersi del modello del labirinto - anzi di vari tipi di labirinto - nella rappresentazione, sia grafica che concettuale, dell’organizzazione delle varie discipline e più in generale della cultura - è infatti da lui indagato nel primo capitolo del volume Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazone. A fianco la mappa disegnata da Adso (p. 323) come risulta dalle esplorazioni noturne e segrete della biblioteca, che però si rivelano fruttuose solo dopo che l’osservazione dell’edificio dall’esterno ha permesso a Guglielmo di comprenderne la struttura.   Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980. Collocazione: CAGLI F. 140
immagine di La mappa dell'abbazia
La mappa dell'abbazia
Prima ancora dell’inizio della narrazione il testo si apre con la mappa dell’abbazia. Una sorta di anticipazione di quell’unità di luogo di tradizione aristotelica che è però anche una della caratteristiche del giallo classico. Poche pagine dopo l’autore pone anche le basi di una scansione temporale che struttura l’opera, i cui capitoli riprendono la suddivisione della giornata tipica del mondo monastico (e benedettino in particolare). La vicenda, che si svolge in sette giorni, è così ritmata sulla base della vita dell’abbazia.   Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980. Collocazione: CAGLI F. 140
immagine di Fabrizio Carbone, Nuovi romanzi. La vita è sogno, «Panorama» (13 ottobre 1980)
Fabrizio Carbone, Nuovi romanzi. La vita è sogno, «Panorama» (13 ottobre 1980)
Quando viene annunciata l’uscita del romanzo si solleva immediatamente una grande attenzione e curiosità per la prima prova romanzesca di un intellettuale già molto noto. La prima recensione che abbiamo individuato è pubblicata da «Panorama» nel numero del 13 ottobre 1980, che segnala la pubblicazione del volume per la fine del mese. L’articolo, firmato da Fabrizio Carbone, sottolinea il fatto che di questo romanzo si parla da molto tempo e chi ne ha potuto leggere in anteprima le bozze è considerato un privilegiato negli ambienti letterari italiani. Carbone pone in relazione - quasi in contrasto - l’opera di Eco e il nuovo romanzo di Enzo Siciliano, La principessa e l’antiquario, in uscita nello stesso periodo. In queste pagine si trova anche un’intervista a Siciliano. L’articolo contiene alcune inesattezze. Si dice per esempio che la vicenda si svolge in un castello medioevale mentre poche righe dopo si parla di convento.   Fabrizio Carbone, Nuovi romanzi. La vita è sogno, «Panorama», XVIII, 13 ottobre 1980, p. 146-151. Collocazione: A. 2308 (1980)
immagine di Laura Lilli, Quest'Eco che giunge dal passato, «la Repubblica» (15 ottobre 1980)
Laura Lilli, Quest'Eco che giunge dal passato, «la Repubblica» (15 ottobre 1980)
Fra gli articoli che anticipano l’uscita in libreria e che testimoniano la grande attesa per l’evento troviamo questa intervista di Laura Lilli all’autore. Intervista senza dubbio pungente e critica, volta quasi a squalificare il romanzo, la scelta di Eco di dedicarvisi e le modalità con cui l’ha fatto. In alcune risposte il professore sembra essere piuttosto infastidito dalle domande. Cliccare qui per leggere l’intervista a una migliore risoluzione.   Laura Lilli, Quest'Eco che giunge dal passato, «la Repubblica», 15 ottobre 1980, p. 18. Collocazione: G. 131 (1980)
immagine di Giallo antico, «L'Espresso» (19 ottobre 1980)
Giallo antico, «L'Espresso» (19 ottobre 1980)
«L'Espresso» pubblica non una semplice recensione ma un corposo dossier dedicato a Il nome della rosa, composto da un riassunto del romanzo, alcune pagine tratte da esso e i pareri di tre studiosi illustri. Un trattamento degno di quello che, come abbiamo visto, si configura come un vero e proprio evento letterario. Con «L'Espresso» d’altra parte Eco gioca in casa, dal momento che collabora da tempo col settimanale. I tre pareri eccellenti sono quelli di Maria Corti (titolo del suo breve intervento: È un’opera chiusa, p. 108), Alfonso M. di Nola (In quell’inferno ci siamo noi, p. 110-111) e Italo Mereu (Nel segno dell’inquisizione, p. 115). Nel volume di Bruno Pischedda Eco: guida al Nome della rosa questo articolo di Mereu viene erroneamente indicato con data 1 ottobre 1980, identificandolo quindi erroneamente come prima recensione al romanzo. Evidentemente un refuso della comunque benemerita rassegna di recensioni proposta dal volume citato, non l’unico dal momento che la recensione di Claudio Altarocca uscita su «Il Giorno» del 16 novembre, viene da Pischedda datata al 16 ottobre. Pischedda non cita invece l’articolo di Carbone uscito su «Panorama» che abbiamo visto prima e che è veramente il primo articolo dedicato a Il nome della rosa uscito sulla stampa generalista.   Giallo antico, «L'Espresso», XXVI, 19 ottobre 1980, n. 42, p. 106-119. Collocazione: 19/411 (1980)    
immagine di Umberto Eco, Il nome della rosa (ed. Premio Strega, 2007)
Umberto Eco, Il nome della rosa (ed. Premio Strega, 2007)
La grande attenzione ricevuta dal romanzo prima ancora della sua uscita si accresce naturalmente quando approda in libreria. Nel luglio del 1981 il successo viene certificato (e amplificato) dalla vittoria del Premio Strega. Fra i 10 finalisti era presente anche l’opera di Siciliano che già nel dossier di «Panorama» citato in precedenza era contrapposta e accoppiata al romanzo di Eco. Una curiosità: il premio in denaro è di 1.000.000 di lire. Nel 2007 il romanzo esce in una edizione speciale all’interno della collana che la casa editrice UTET dedica alle opere vincitrici del Premio Strega. Questa edizione contiene una prefazione del grande semiologo Jurij Lotman (p. IX-XLII) intitolata L’uscita dal labirinto, che aveva accompagnato come postfazione la prima traduzione in russo del romanzo, pubblicata nel 1989, quando ancora - dice Lotman - Eco era quasi sconosciuto al grande pubblico di quel paese (in seguito invece verranno tradotte molte sue opere romanzesche e saggistiche). Il semiologo russo, dopo avere dibattuto se quello di Eco sia un romanzo storico o poliziesco e avere scartato entrambe le ipotesi, conclude con l’affermazione che Il nome della rosa , in quanto «romanzo sulla parola e sull’uomo», è un romanzo semiotico perché «la scienza che studia il posto della parola nella cultura, il rapporto tra parola e uomo, si chiama semiotica» (p. XLI). Lotman era stato citato come teorico di riferimento per il romanzo da Maria Corti nel suo breve articolo contenuto nel dossier uscito su «L’Espresso» il 16 ottobre 1980.   Umberto Eco, Il nome della rosa, prefazione di Jurij Lotman, Torino, UTET, 2007. Collocazione: 20. N. 420
immagine di Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa (1984)
Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa (1984)
Un momento molto importante per lo studio del romanzo è la pubblicazione da parte di Eco delle Postille a Il nome della rosa, che escono sul n. 49 di «Alfabeta» del giugno 1983. Si tratta di pagine in cui l’autore vuole offrire non una interpretazione del proprio testo ma, come titola il secondo paragrafo, Raccontare il processo, il lavoro di scrittura che sta dietro il romanzo. Nel 1984 le Postille vengono pubblicate come volumetto a sé. Nell’immagine ne vediamo la copertina. A partire dall’anno successivo queste pagine saranno integrate come appendice nell’edizione Bompiani del romanzo, rimanendo a lungo in questa posizione anche in molte delle edizioni successive, elemento non necessario ma molto utile e interessante per comprendere i meccanismi di costruzione delle pagine narrative.   Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa, Milano, Bompiani, stampa 1984. Collocazione: PINI F. 37
immagine di Umberto Eco, Il nome della rosa (ed. riveduta e corretta, 2016)
Umberto Eco, Il nome della rosa (ed. riveduta e corretta, 2016)
Nel 2012 esce una edizione riveduta e corretta del romanzo. Qui vediamo la copertina di una successiva edizione del 2016, anch’essa ancora indicata esplicitamente come riveduta e corretta, dicitura che poi si perderà in edizioni successive. In una breve nota Eco spiega che alcune correzioni emendavano errori dovuti a un’errata traduzione delle fonti medioevali - la viella non poteva essere un violino, strumento che ancora non esisteva - o vere e proprie sviste - i monaci non potevano certamente mangiare peperoni, prodotto importato dalle Americhe. Un altro tipo di intervento era invece quello compiuto sulle citazioni latine, che non venivano diminuite - nonostante molti lettori rimproverassero all’autore di averne abusato - ma in alcuni casi venivano spiegate o tradotte in maniera più o meno letterale dalle parole dei personaggi, perché una eventuale mancata comprensione del testo latino rendeva impossibile capire la trama.   Umberto Eco, Il nome della rosa, 5. ed. Classici contemporanei Bompiani, VIII ed. riveduta e corretta, Milano, Bompiani, 2016. Collocazione: 35. A. 35945  
immagine di Umberto Eco, Il nome della rosa (2020)
Umberto Eco, Il nome della rosa (2020)
Nel compiere questa non esaustiva storia editoriale del romanzo non si può non citare l’edizione che la casa editrice La nave di Teseo, della quale Eco è stato uno dei fondatori nel 2015, pubblica nel 2020. Il valore aggiunto di questo volume risiede nel fatto che in appendice al testo narrativo vengono proposti, come sottolineato nella sovracoperta che qui vediamo, «i disegni e gli appunti preparatori dell’autore». Si tratta di quei materiali grafici di cui Eco parlava anche nelle Postille e che negli anni precedenti erano stati resi pubblici solo in maniera parziale e frammentaria. Sono studi di personaggi, disegni degli ambienti, grafici e piante su cui l’autore aveva costruito la labirintica biblioteca, la cui mappa definitiva - che nell’edizione originale compariva a p. 323, quando al quarto giorno, Dopo compieta, i protagonisti penetrano i misteri della sua struttura - conquista la sovracoperta (e la copertina, in cui viene elegantemente impressa in rilievo). Per maggiori informazioni su questa appendice iconografica si veda la breve nota che la introduce, a firma di Mario Andreose.   Umberto Eco, Il nome della rosa, nuova ed. con i disegni e gli appunti preparatori dell'autore, Milano, La nave di Teseo, 2020. Collocazione: 20. G. 7323 Questa edizione del romanzo è disponibile nelle biblioteche del Comune di Bologna anche in formato ebook.
immagine di Umberto Eco, Il nome della rosa (2020)
Umberto Eco, Il nome della rosa (2020)
Un esempio del materiale grafico preparatorio al romanzo pubblicato nell’edizione 2020. In questi disegni, di mano dell’autore, vediamo un copista all’opera mentre prepara la pergamena su cui scriverà e lo studio di come doveva essere la struttura di uno degli armaria della biblioteca.   Umberto Eco, Il nome della rosa, nuova ed. con i disegni e gli appunti preparatori dell'autore, Milano, La nave di Teseo, 2020. Collocazione: 20. G. 7323
immagine di La rosa dipinta (1985)
La rosa dipinta (1985)
Abbiamo detto che alcuni dei disegni realizzati da Eco nella fase di preparazione del romanzo - allo scopo di creare il mondo in cui la vicenda si svolge, come sottolinea nelle Postille - erano stati parzialmente pubblicati in precedenza. Alcuni si trovano in questo volume del 1985 che pone una questione che diventa di interesse soprattutto nel momento in cui viene annunciato che Jean-Jacques Annaud sta realizzando un film tratto dal romanzo (film che esce nel 1986). Come rendere in immagini il testo? La domanda si pone naturalmente per qualunque trasposizione cinematografica di un’opera letteraria, ma per Il nome della rosa la questione sembra complicata dal successo ottenuto, dall’importanza dell’autore e dalle parole con cui lui stesso ha raccontato il processo di costruzione del suo testo. Il volume La rosa dipinta, che propone i disegni che 31 illustratori hanno realizzato prendendo spunto dal romanzo, contiene anche un’intervista in cui Eco tratta proprio di questi temi. Nell’intervista si parla anche del film, in quel momento in lavorazione, e di come Eco sia stato più o meno coinvolto nella sua realizzazione. Prima di passare a vedere un paio delle illustrazioni presenti in La rosa dipinta ricordiamo che, come sembra ormai inevitabile per qualunque romanzo di successo contemporaneo o passato, Il nome della rosa nel 2019 è stato trasposto anche in una serie TV di otto episodi diretta da Giacomo Battitato. La si può trovare sia in DVD che su Rai Play.   La rosa dipinta. Trentuno illustratori per "Il nome della rosa" di Umberto Eco, contributi di Grazia Nidasio, Antonio Faeti, Paola Pallottino; con una intervista di Fulvio De Nigris a Umberto Eco e una serie di disegni realizzati dall'autore durante la stesura del romanzo, Milano, Azzurra, 1985. Collocazione: CAGLI L. 15
immagine di La rosa dipinta (1985)
La rosa dipinta (1985)
L’inquisizione. Illustrazione di Danielle Ansermet.   La rosa dipinta. Trentuno illustratori per "Il nome della rosa" di Umberto Eco, contributi di Grazia Nidasio, Antonio Faeti, Paola Pallottino; con una intervista di Fulvio De Nigris a Umberto Eco e una serie di disegni realizzati dall'autore durante la stesura del romanzo, Milano, Azzurra, 1985. Collocazione: CAGLI L. 15
immagine di La rosa dipinta (1985)
La rosa dipinta (1985)
«Allontanatosi l’Abate e gli altri monaci, l’erborista e il mio maestro osservarono a lungo il cadavere, con la freddezza degli uomini di medicina». Illustrazione di Gigliola Gamberini   La rosa dipinta. Trentuno illustratori per "Il nome della rosa" di Umberto Eco, contributi di Grazia Nidasio, Antonio Faeti, Paola Pallottino; con una intervista di Fulvio De Nigris a Umberto Eco e una serie di disegni realizzati dall'autore durante la stesura del romanzo, Milano, Azzurra, 1985. Collocazione: CAGLI L. 15
immagine di Partita a scacchi con il tempo. Speciale Umberto Eco  - «Linus»,  LVIII, gennaio 2022, n. 680
Partita a scacchi con il tempo. Speciale Umberto Eco - «Linus», LVIII, gennaio 2022, n. 680
Nel gennaio 2022 «Linus», la rivista di fumetti più longeva e importante in Italia che lo stesso Eco aveva tenuto a battesimo nel 1965, esce con uno speciale a lui dedicato (p. 29-64), su cui torneremo quando ci occuperemo del rapporto fra Eco e il medium fumetto. Quello che ora ci interessa è che questo speciale contiene anche una intervista a Milo Manara in cui si annuncia che il celebre fumettista realizzerà l’adattamento a fumetti de Il nome della rosa. La prima parte di questo lavoro esce un anno dopo su quella stessa rivista, nei numeri 692-695 (gennaio-aprile 2023). Il numero di maggio annuncia invece l’uscita in volume di questa prima parte, pubblicata dalla casa editrice Oblomov. La seconda parte non è ancora stata pubblicata né sulla rivista né in volume, ma è annunciata in uscita nel 2025.   «Linus»,  LVIII, gennaio 2022, n. 680 Collocazione: 17* BB. 1099 (2022)
immagine di Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa (2023)
Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa (2023)
Se nel film del 1986 Guglielmo da Baskerville era interpretato da Sean Connery e nella serie TV del 2019 da John Turturro, Manara si ispira a un giovane Marlon Brando per dare un volto al protagonista. Vediamo qui una delle prime tavole del fumetto (visibile ad alta definizione sul sito della casa editrice), in cui Guglielmo e Adso stanno arrivando all’abbazia.   Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa. Vol. 1, Milano, Oblomov, 2023.
immagine di Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa (2023)
Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa (2023)
In un’intervista rilasciata a Michele Casella per «Rolling Stone» (datata 21 ottobre 2023) Milo Manara spiega che per rispettare la «matrioska straordinaria che ha costruito Umberto Eco» ha deciso di utilizzare stili diversi di disegno per i differenti piani narrativi di cui si compone la vicenda. Da un disegno più realistico per la cornice contemporanea, in cui l’autore ritrova il testo tratto dal manoscritto di Adso, a una serie di illustrazioni dal tratto medievaleggiante per specifiche parti più documentaristiche, quasi fossero tratte da testi antichi. Ne vediamo un esempio in questa tavola e ancora di più in quella successiva.   Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa. Vol. 1, Milano, Oblomov, 2023.
immagine di Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa (2023)
Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa (2023)
Nella stessa intervista citata in precedenza Manara dettaglia quelle che sono state le sue fonti di ispirazioni iconografiche, rintracciandovi anche un legamo con il fumetto:   «L’ultima ricerca è stata proprio sulle iconografie dell’epoca, perché nel fumetto c’è un’aggiunta rispetto al film, in quanto ho riportato proprio i disegni di quel periodo. Si tratta [di] disegni comici, satirici, anche osceni in molti casi, che sono fondamentali nella narrazione ma che non sono mai stati visibili, neanche nel film. Curiosamente, queste decorazioni dei manoscritti si chiamavano proprio vignette, perché erano decorati con tralci di vite, da cui hanno preso il nome. Quindi c’è un legame sotterraneo molto interessante tra il fumetto, il libro e le decorazioni marginali dell’epoca».   Ne vediamo un chiarissimo esempio in questa tavola (visibile ad alta definizione sul sito della casa editrice)in cui Manara rappresenta il salterio miniato da Adelmo che Guglielmo e Adso ammirano durante la loro prima visita allo scriptorium nel primo giorno all’abbazia (p. 84-85). Una ricognizione delle fonti di Manara la si può trovare nella recensione al fumetto firmata da Sara Salvadori sulla rivista online «Arabeschi». Un’altra interessante intervista è stata rilasciata dal disegnatore a Michele Casella per «Rolling Stone. Italia», dal titolo Com’è trasporre “Il nome della rosa” a fumetti? Ce lo spiega Milo Manara.   Milo Manara - Umberto Eco, Il nome della rosa. Vol. 1, Milano, Oblomov, 2023.
immagine di Psalterium cum glossis (sec. XII)
Psalterium cum glossis (sec. XII)
In questa immagine vediamo la prima carta di un’opera simile a quella che Adelmo stava copiando al momento della morte, cioè un salterio. Si tratta di un manoscritto più antico - risale infatti al XII secolo - e l’unica miniatura che vi si trova è il capolettera con cui inizia il testo. L’opera è integralmente leggibile online. Va da sé che un manoscritto è un oggetto unico. Anche quando riportano lo stesso testo, due manoscritti non saranno mai uguali l’uno all’altro. Luciano Canfora nel volume Il copista come autore porta all’estremo questo concetto:   «A ben vedere, è il copista il vero artefice dei testi che sono riusciti a sopravvivere. Così fu fino al tempo in cui la loro salvezza fu presa in carico dai tipografi. Il copista è colui che materialmente scrive il testo. Le parole che lo compongono prima sono passate attraverso il filtro, e il vaglio, della sua testa, poi sono state messe in salvo grazie alla destrezza della mano nel tener dietro alla dettatura interiore. [...] Come la traduzione riempie i “vuoti” del testo [...], così il copista integra, credendo di perfezionarlo, un testo in cui si è perfettamente identificato: appunto perché copista» (p. 21, 23).   L’atto della copiatura - che è «la forma più alta e profonda» di lettura (ivi, p. 25) - porta alla piena appropriazione di un testo. In fondo anche tutta la vicenda del nostro romanzo ruota intorno alla riflessione fra il valore della copiatura di testi altrui e quello della produzione di nuove opere. I monaci dell’abbazia tengono in grande importanza il proprio lavoro di trasmissione della cultura, ma difficilmente possono sentirsi autori di un’opera, come invece rileva Canfora. Così riflette Adso durante una visita nello scriptorium al terzo giorno di permanenza nell’abbazia:   «L’abbazia in cui mi trovavo era forse ancora l’ultima a vantare un’eccellenza nella produzione e riproduzione della sapienza. Ma forse proprio per questo i suoi monaci non si appagavano più nell’opera santa della copia, volevano anch’essi produrre nuovi complementi della natura, spinti dalla cupidità di cose nuove» (p. 187).   Ma se seguiamo l’interpretazione offerta da Canfora, l’atto di riscrittura materiale di un testo diventa anche un momento di reinterpretazione del testo stesso. Se questo si manifesta in maniera eclatante nelle miniature che, come nel salterio di Adelmo, riempiono gli spazi della pagina non occupati dalle parole - proprio dall’osservazione di queste figure scaturisce la prima conversazione fra Guglielmo e Jorge sul comico e sul riso (p. 84-91) - anche i segni più quotidiani e meno notevoli che il copista lascia sul manoscritto contribuiscono a renderlo un oggetto unico e diverso da tutti gli altri. Eco dedica attenzione alle condizioni fisiche e materiali del lavoro di copiatura, in particolare quando il romanzo torna nello scriptorium per la seconda volta (siamo nel secondo giorno, all’ora terza, p. 134 e sgg.). Dopo avere descritto la disposizione dei tavoli - studiata in modo da sfruttare al meglio la luce e il calore, con postazioni di lavoro più o meno comode che i copisti si contendono - l’autore cita le tracce che questi uomini dediti alla trasmissione del sapere lasciano sull’opera per ricordare il proprio lavoro:   «E questo spiega perché sovente troviamo in margine ai manoscritti frasi lasciate dallo scriba come testimonianza di sofferenza (e di insofferenza) quali “Grazie a Dio presto si fa buio”, oppure “Oh se avessi un bel bicchiere di vino!”, o ancora “Oggi fa freddo, la luce è tenue, questo vello è peloso, qualcosa non va”. Come dice un antico proverbio, tre dita tengono la penna, ma il corpo intero lavora. E dolora» (p. 135).   Anche in un manoscritto che non presenta eleganti miniature si può quindi percepire la presenza del copista, la materialità del suo lavoro, capace di creare un oggetto che è unico e irripetibile sia nel contenuto che nella sua materialità.   [Psalterium cum glossis] (sec. XII). Collocazione: Ms. A.27
immagine di Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili (1499)
Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili (1499)
Nell’intervista rilasciata ad Adriano Ercolani e contenuta nello Speciale Umberto Eco pubblicato su «Linus» nel gennaio 2022 (Il monastico Manara, p. 30-35), Milo Manara precisa anche che sta studiando a fondo, come fonte di riferimento iconografico, l’Hypnerotomachia Poliphili, «un testo pieno di illustrazioni meravigliose, in un bianco e nero nitido, che per me sono una sorgente di ispirazione, un modello di eleganza» (p. 35). Ricordiamo che è il momento in cui il disegnatore sta realizzando il fumetto che uscirà un anno dopo.  Se confrontiamo l’illustrazione con cui il fumettista rappresenta il salterio di Adelmo (vista in precedenza) con quella che si trova qui a fianco (una delle 170 xilografie che arricchiscono il romanzo allegorico Hypnerotomachia Poliphili citato nell’intervista) possiamo attestare che lo studio di quell’opera ha effettivamente lasciato il segno nella scelta dello stile da utilizzare nelle tavole più documentaristiche del suo lavoro.   Francesco Colonna [?], Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio, 1499. Collocazione: 16. M. II*. 11
immagine di Telesforo da Cosenza, Abbas Ioachim magnus propheta (1516)
Telesforo da Cosenza, Abbas Ioachim magnus propheta (1516)
Chiudiamo il capitolo sulla trasposizione a fumetti del romanzo con un’ultima immagine tratta da un’opera dedicata a uno degli eretici più volte richiamati da Eco, Gioacchino da Fiore. Quello che però in questo momento ci interessa è il fatto che anche queste pagine, come i manoscritti di cui parla Manara nel brano tratto dall’intervista citato in precedenza, sono illustrate da vere e proprie vignette, che si alternano al testo, completandosi e arricchendosi vicendevolmente.   Telesforo da Cosenza, Abbas Ioachim magnus propheta, Venezia, Lazzaro Soardi, 1516. Collocazione: 16. K. VI. 31 op. 1
immagine di Un manoscritto del secolo XIV in lingua greca
Un manoscritto del secolo XIV in lingua greca
Quelle che vedete in questa immagine sono due carte tratte da un manoscritto del sec. XIV, quindi sostanzialmente coevo alla vicenda narrata nel romanzo. Anche in questo caso il manoscritto non è miniato, ma è scritto in greco. Il romanzo spesso accenna all’importanza della conoscenza di questa lingua per i monaci più colti - conoscerla era requisito necessario per ambire a essere bibliotecario - ma le diverse lingue in cui sono scritte le quattro parti rilegate insieme nel volume che contiene il “libro proibito” è anche elemento importante dello svelamento del mistero. Il testo di Aristotele che Jorge vuole celare è proprio scritto in greco. Il manoscritto è integralmente leggibile online.   [Serie di commenti dei Santi Padri sui Vangeli e commenti di Teofilatto sulle Epistole di san Paolo], sec. XVI. Collocazione: Ms. A.3      
immagine di Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum (1491)
Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum (1491)
In precedenza abbiamo sottolineato l’unicità di un manoscritto, innanzitutto in senso materiale. Sotto questo punto di vista le prime opere a stampa sembrano perseguire questo stesso status di unicità. Due diversi esemplari di un incunabolo infatti non saranno mai esattamente uguali l’uno all’altro, per limiti tecnici del processo di stampa ma anche per un desiderio di personalizzazione dell’esemplare da parte del possessore. Si pensi, come esempio più immediato, alla consuetudine di non stampare la prima lettera del testo (o di un capitolo) per inserire in seguito un capolettera miniato, come nella pagina che qui vediamo. Spesso gli incunaboli presentano anche una serie di interventi manoscritti sui margini del libro che naturalmente non sono realizzati nel momento della produzione del volume, come accadeva per il lavoro dei copisti, ma che portano ugualmente quel volume a essere un oggetto unico. Tanto che può accadere che l’interesse che ancora oggi desta in noi quel volume sia legato più alla sua materialità che al testo che tramanda. Ancora oggi ognuno annota i propri libri ma difficilmente la cosa riveste un interesse, a meno che le note non siano quelle lasciate da un personaggio di rilievo. Anche in questo caso comunque l’interesse risiede quasi sempre nel contenuto di quelle note, non nella loro materialità, nella loro forma. Ricercare queste tracce nei libri antichi invece rivela spesso una diversa modalità di concepire l’opera e il libro, abitudini oggi ormai scomparse, modi di ragionare e affrontare un testo a cui non siamo più abituati. Abbiamo ricercato in alcuni incunaboli alcuni esempi che presentiamo in questa e nelle prossime immagini. Può trattarsi di vere e proprie decorazioni che imitano i marginalia dei manoscritti, di segni per aiutare la memoria - stilizzati o più realistici - o di veri e propri disegni che possono non avere nessuna relazione con il testo, realizzati dal lettore (o meglio: da uno dei lettori che hanno preso in mano quel libro nel corso dei secoli) senza uno scopo reale.   Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum, Strasburgo, [tip. del Jordanus = Georg Husner], altera die post Sancti Laurentii [11 VIII] 1491. Collocazione: 16. G. V. 8
immagine di Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes (1472)
Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes (1472)
Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes, Venezia, Nicolaus Jenson, 1472. Collocazione: 16. D. III. 23
immagine di Macer Floridus, De viribus herbarum carmen (1482)
Macer Floridus, De viribus herbarum carmen (1482)
In questo poema dedicato alle virtù delle erbe - che immaginiamo sarebbe stato apprezzato da Serafino, speziale dell’abbazia - un lettore ha segnato ai margini i punti di interesse del testo relativamente a diversi dolori del corpo. Si veda in questa pagina e nel dettaglio di un’altra che un piccolo dente e un piccolo orecchio si trovano a fianco delle righe che trattano dei mali di queste due parti del corpo.   Macer Floridus, De viribus herbarum, Milano, Antonio Zarotto, 19 XI 1482. Collocazione: 16. D. VI. 35
immagine di Macer Floridus, De viribus herbarum carmen (1482)
Macer Floridus, De viribus herbarum carmen (1482)
Anche in questo caso i piccoli disegni sono un ulteriore aiuto mnemonico, dal momento che accompagnano note testuali a margine che già di per sé sarebbero sufficienti a indicare l’argomento delle righe a fianco. Il testo sta spiegando le virtù curative del giglio (qui la pagina completa), che può essere utile sia per curare le ustioni - sopra vediamo infatti il disegno di un fuoco - che i morsi di serpenti come quello raffigurato sotto.   Macer Floridus, De viribus herbarum, Milano, Antonio Zarotto, 19 XI 1482. Collocazione: 16. D. VI. 35
immagine di Marco Antonio Sabellico, Enneades ab orbe condito (1498)
Marco Antonio Sabellico, Enneades ab orbe condito (1498)
Cliccare qui per vedere la pagina intera a una migliore risoluzione. Cliccare qui per vedere il dettaglio del disegno nel margine inferiore, che non sembra avere diretta relazione con il testo.   Marco Antonio Sabellico, Enneades ab orbe condito ad inclinationem romani imperii; Epistola ad Democritum de Terracina, Venezia, Bernardino e Matteo Vitali, pr. kal. apr. [31 III] 1498. Collocazione: 16. E. I. 4
immagine di Marco Antonio Sabellico, Enneades ab orbe condito (1498)
Marco Antonio Sabellico, Enneades ab orbe condito (1498)
Cliccare qui per vedere le pagine intere a ua migliore risoluzione. Cliccare qui per vedere il dettaglio del disegno sul margine inferiore, questa volta in relazione con il testo che affianca.   Marco Antonio Sabellico, Enneades ab orbe condito ad inclinationem romani imperii; Epistola ad Democritum de Terracina, Venezia, Bernardino e Matteo Vitali, pr. kal. apr. [31 III] 1498. Collocazione: 16. E. I. 4  
immagine di Roberto Caracciolo, Specchio della fede
Roberto Caracciolo, Specchio della fede
Un testo importante, il primo di questo genere scritto in volgare, che mantiene una impostazione grafica simile a quella delle miniature dei manoscritti.   Roberto Caracciolo, Specchio della fede, Venezia, [Giovanni Rosso], ed. Giovanni di Lorenzo, [dopo l’11 IV 1495]. Collocazione: 16. H. IV. 13
immagine di Roberto Caracciolo, Specchio della fede
Roberto Caracciolo, Specchio della fede
Roberto Caracciolo, Specchio della fede, Venezia, [Giovanni Rosso], ed. Giovanni di Lorenzo, [dopo l’11 IV 1495]. Collocazione: 16. H. IV. 13
immagine di Thomas Bricot, Textus abbreviatus in cursum totius physices et metaphysicorum (1486)
Thomas Bricot, Textus abbreviatus in cursum totius physices et metaphysicorum (1486)
«Fui colpito, in una pagina in cui iniziava il santo evangelo dell’apostolo Marco, dalla immagine di un leone. Era certamente un leone, anche se non ne avevo mai visti in carne e ossa, e il miniatore ne aveva riprodotto con fedeltà le fattezze, forse ispirandosi alla vista dei leoni di Hibernia, terra di creature mostruose, e mi convinsi che questo animale, come d’altra parte dice il Fisiologo, concentra in sé tutti i caratteri delle cose più orrende e maestose a un tempo. Così quella immagine mi evocava insieme l’immagine del nemico e quella di Cristo Nostro Signore, né sapevo in quale chiave simbolica dovessi leggerla, e tremavo tutto, e per il timore, e per il vento che penetrava dalle fessure delle pareti. Il leone che vidi aveva una bocca irta di denti e una testa finemente loricata come quella dei serpenti, il corpo immane che si reggeva su quattro zampe dalle unghie puntute e feroci, assomigliava nel suo vello a uno di quei tappeti che più tardi vidi portare dall’Oriente, a scaglie rosse e smaragdine, su cui disegnavano, gialle come la peste, orribili e robuste trabeazioni d’ossa. Gialla era pure la coda, che si attorceva dalle terga su su sino al capo, terminando con un’ultima voluta in ciuffi bianchi e neri» (p. 243).   Cliccare qui per vedere la pagina a una migliore risoluzione. Thomas Bricot, Textus abbreviatus in cursum totius Physices et Metaphysicae Aristotelis, Lione, [tip. del Bricot, H 3974], id. apr. [13 IV] 1486.
immagine di Auctoritates Aristotelis et aliorum philosophorum (1488)
Auctoritates Aristotelis et aliorum philosophorum (1488)
Non possiamo non concludere questa carrellata con la pagina in cui, su un volume dedicato ad Aristotele e alla sua auctoritas che tanto spaventa Jorge da Burgos, un anonimo lettore ha sintetizzato in maniera schematica le Aristotelis propositiones.   Auctoritates Aristotelis et aliorum philosophorum, Bologna, Ugo Ruggeri, 15 IV 1488.Collocazione: 16. O. IV. 35
immagine di Il titolo del romanzo
Il titolo del romanzo
Dopo quanto detto nelle immagini precedenti è curioso che il titolo del romanzo si colleghi, involontariamente, proprio all’errore compiuto da un copista. Ma andiamo con ordine. Molte sono state le interpretazioni che i critici hanno dato al titolo del romanzo. Eco all’inizio delle Postille dichiara di avere compiuto questa scelta proprio perché la rosa, «figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno», permetteva il proliferare di interpretazioni. Cosa che non sarebbe successa con altri titoli meno evocativi, come per esempio il «titolo di lavoro, che era L’abbazia del delitto» (p. 508). Il nome della rosa è un riferimento a un verso di un poema in latino del XII secolo, intitolato De contemptu mundi e composto da un monaco di cui poco si sa, Bernardus Morlanensis (conosciuto e indicato anche con altri nomi). Si tratta del v. 952 del primo libro del poema (che conta circa 3.000 versi suddivisi fra un prologo e tre libri):   Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus   Lo vediamo indicato dalla freccia in un’edizione del poema pubblicata nel 1754, in cui sono raccolti anche altri testi poetici che denunciano il corrotto stato della Chiesa (il volume è leggibile integralmente online). L’opera infatti è rappresentante di un vero e proprio genere letterario, quello appunto del “disprezzo del mondo” denunciato dal titolo, che punta il dito da una parte sulla decadenza del mondo contemporaneo - a partire dalle istituzioni ecclesiastiche - dall’altra sulla vanità delle cose terrene, destinate a perire e delle quali ci rimarranno solamente i «nudi nomi». La rosa diventa quindi emblema di caducità degli oggetti, anche dei più belli e preziosi, e per analogia di tutte le passioni e le glorie della nostra vita materiale. Identificare il riferimento al poema amplia ancora di più le possibili interpretazioni del titolo, ma tutta questa potenza evocativa nasce, in sostanza, dall’errore di un anominmo copista, come vedremo nella prossima immagine.   [Bernardus Morlanensis], De contemptu mundi, in Matija Vlačić, Varia doctorum piorumque virorum de corrupto ecclesiae statu poemata, [S.n., s.l.], 1754, p. 226-370.
immagine di Una rosa è una rosa è una rosa?
Una rosa è una rosa è una rosa?
Questo articolo di Chiara Frugoni (qui leggibile a una migliore risoluzione) racconta la storia del refuso da cui nasce il titolo. La storica cita colui che per primo lo aveva notato, Ronald E. Pepin, che del De contemptu mundi aveva pubblicato una traduzione in inglese nel 1991. Il verso a cui Eco si rifà - probabilmente per il tramite di L’autunno del Medioevo di Huizinga, precisa Frugoni - è sbagliato, perché nella versione originale del poema non si leggeva «rosa» ma «Roma». Il verso si inserisce infatti in un brano del poema che riprende l’artificio retorico dell’Ubi sunt?, cioè un’elencazione di personaggi che in vita erano stati simbolo di gloria e potenza e dei quali, ora che sono morti, rimangono solamente i nomi. Ma i personaggi citati prima del verso incriminato sono tutti presi dalla storia di Roma antica: Cesare, Mario, Cicerone, Catone, Romolo, Remo e altri. Bernardus Morlanensis quindi ci vuole dire che ci rimane solo il nome non di una rosa, ma della potenza di Roma antica, simbolo massimo della caducità della gloria terrena. Che quella con Roma sia la versione corretta del verso è ampiamente dimostrato da Pepin, ma va detto che la variante «rosa» era così diffusa nella tradizione manoscritta dell’opera che veniva accolta praticamente da tutte le edizioni a stampa. Nel 1929, in una precedente traduzione inglese, il curatore Hoskier la indicava ancora come lezione corretta, pur proponendo la variante «Roma». Quello di Eco è quindi un errore giustificato dal momento che gli studi di Pepin uscirono negli anni successivi alla pubblicazione del romanzo. Eco accenna alla questione in maniera ironica in Interpretazione e sovrainterpretazione, pubblicato nel 1995 ma che riporta i testi delle Tanner Lectures che il professore tenne a Cambridge nel 1990:   «Così, se mi fossi imbattuto in un’altra versione del poema di Bernardo Morliacense, il titolo del mio romanzo avrebbe potuto essere Il nome di Roma (che in tal modo avrebbe acquisito delle sfumature fasciste). Ma il testo recita Il nome della rosa e capisco quanto sia difficile arrestare la serie infinita delle connotazioni che la parola suscita» (p. 94).   Inutile dire che, se si fosse imbattuto in una versione del poema che riportava “Roma” al posto di “rosa”, Eco non avrebbe mai modellato il proprio titolo su quel verso. Lo stesso Pepin nell’introduzione alla sua traduzione del 1991 afferma che quel titolo “sbagliato” è senza dubbio «more intriguing» (p. XXII).  Prima ancora di pubblicare la traduzione del De contemptu mundi Pepin aveva trattato in maniera più specifica la genesi del titolo di Eco e il suo legame con la variante errata del verso in un breve articolo intitolato Adso’s closing line in The Name of the Rose («American Notes & Queries», May-June 1986, p. 151-152).   Chiara Frugoni, C’è un refuso sotto “Il nome della rosa”, «la Repubblica», 23 novembre 2009, p. 38. Collocazione: G. 131
immagine di I nomi dei protagonisti
I nomi dei protagonisti
I critici che si sono occupati del romanzo si sono spesso sbizzarriti nell’individuare le citazioni più o meno nascoste nel testo. I nomi dei personaggi sono stati spesso l’oggetto di tale ricerca, come se in ognuno di essi Eco avesse voluto celare un’allusione, un significato da scoprire. Lo stesso autore ne parla nella terza delle Tanner Lectures del 1990 (Interpretazione e sovrainterpretazione, p. 89 e seguenti), rivelando che in alcuni casi la ricerca di correlazioni fra i nomi dei personaggi del romanzo e quelli di persone realmente vissute o personaggi di altri testi narrativi si era forse spinta un po’ troppo in là. Non tanto perché quelle correlazioni lui non le aveva minimamente pensate al momento della scrittura - l’autore empirico non ha infatti quasi mai la facoltà di opporsi all’interpretazione di un suo testo finzionale compiuta da un lettore - quanto perché alcune di esse non aggiungevano niente di interessante alla comprensione del testo stesso. I critici in alcuni casi avevano quindi peccato di sovrainterpretazione del nome scelto dall’autore (non empirico ma modello). Ci sembra però interessante citare un caso in cui una lettura alternativa del nome del protagonista corrobora significati ben presenti nelle pagine del romanzo. Poco dopo la pubblicazione de Il nome della rosa esce su «il manifesto» questo articolo di Severino Cesari (qui leggibile a una migliore risoluzione), in cui il nome Guglielmo da Baskerville viene letto non (solo) in riferimento a Il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle - e quindi a un’avventura che esalta la razionale capacità di dedurre la verità da prove e indizi propria di Sherlock Holmes - ma anche a una persona realmente esistita, sicuramente meno nota al grande pubblico: John Baskerville. Per scoprire qualcosa di più su di lui, oltre a leggere l’articolo di Cesari, possiamo passare all’immagine successiva.   Severino Cesari, Guai a ridere del nome della cosa, «il manifesto», 16 ottobre 1980, p. 4. Collocazione: G. 207
immagine di John Baskerville
John Baskerville
John Baskerville, che vediamo qui ritratto nell’antiporta di un libro a lui dedicato, era un tipografo inglese del Settecento. Il fatto che Cesari nel suo articolo lo citi come fonte di ispirazione per «una buona metà del nome del protagonista» - l’altra metà, Guglielmo, è inquivocabilmente un richiamo a Guglielmo da Occam, che del protagonista è amico e modello - non ci sembra un peccato di sovrainterpretazione, al di là del fatto che Eco avesse pensato o meno a questa possibilità. Come spiega più approfonditamente Cesari infatti Il nome della rosa è un libro che parla di libri non solo in senso citazionisitico, ma perché si occupa dell’importanza della realizzazione materiale della pagina tipografica. E in particolare sottolinea che è possibile realizzare un «bel libro per mezzo della pura e semplice tipografia» che continui in senso più terreno il virtuosismo calligrafico dei monaci copisti che era «eterna ripetizione della Scrittura divina». Queste erano le intenzioni di John Baskerville che, come dice il titolo del libro qui presentato, era non solo tipografo ma anche “fonditore di caratteri”, alla ricerca della bellezza materiale della scrittura. Ancora oggi il suo cognome richiama alla mente di ogni utilizzatore di scrittura su PC alcuni font comunemente in uso in ambito informatico. Si veda, a solo titolo di esempio, un campione dei caratteri realizzati e utilizzati da Baskervile, riprodotto in John Baskerville. A bibliography di Philip Gaskell. Aggiungiamo, se necessario, che l’interpretazione arriva da quel Severino Cesari che, nei 40 anni successivi a questo suo articolo, realizzerà alcuni dei prodotti più innovativi del panorama editoriale mainstream, anche dal punto di vista della composizione grafica e tipografica. Rubiamo ancora qualche parola a Cesari che accenna anche al nome del compagno di Guglielmo, «il novizio Adso (vedere il latino adsum, come dire ci sono, son qui [...])». Una lettura che ci pare significativa - a costo di essere tacciati di sovrainterpretazione da Eco - per un romanzo il cui titolo rimanda invece, lo abbiamo appena visto, all’artificio retorico dell’Ubi sunt?. Il giovane, piccolo Adso, personaggio comune di una storia minore, afferma la sua presenza, il suo esserci, in contrasto al vuoto lasciato dal decadere delle glorie terrene di tanti personaggi celebrati ma dei quali rimane solo il nome.   Josiah Henry Benton, John Baskerville, type-founder and printer. 1706-1775, rist. anast. dell’ed. 1914, New York, Franklin, 1968. Collocazione: 4. F*. V. 129    
immagine di Vaticinia Pontificum (prima metà sec. XV)
Vaticinia Pontificum (prima metà sec. XV)
Ci siamo a lungo aggirati lungo quelle che Genette definisce le soglie del testo: il paratesto presente nelle varie edizioni, le recensioni che lo commentano, i rifacimenti che lo reinterpretano in forma artistica. È ora il momento di entrare all’interno del romanzo per incontrare i temi che lo attraversano, i personaggi che lo animano, i luoghi in cui essi si muovono. Come già detto non tanto per darne un’interpretazione, quanto per rintracciare una documentazione che, al di là del fatto che sia stata o meno utilizzata dall’autore, può illuminare qualche angolo della scrittura o anche solo suscitare curiosità e desiderio di ampliare la conoscenza partendo dalle pagine narrative. Il nome della rosa offre in questo senso percorsi di ricerca pressoché impossibili da esaurire. Come nelle altre occasioni in cui abbiamo applicato questo metodo ai libri scelti per il Gruppo di lettura “Alphaville” la selezione è stata quindi guidata dalla significatività di temi e personaggi ma anche dalla tipologia del patrimonio presente in biblioteca. Spesso anzi, dalla semplice, materiale bellezza di uno dei tanti documenti che si potevano citare. Tutti questi aspetti si assommano nel documento che qui presentiamo e di cui vediamo la miniatura iniziale. Si tratta del manoscritto A.2848 della Biblioteca dell’Archiginnasio, che ha titolo Vaticinia Pontificum, sive Prophetiae Abbatis Joachini ed è databile entro la prima metà del XV secolo. Il documento non solo è consultabile integralmente online (e consigliamo di farlo anche solo per la bellezza delle miniature) ma è stato anche oggetto della mostra curata da Anna Manfron Papi e Sibille. Miniature di profezie medievali in un manoscritto dell’Archiginnasio, tenutasi dal 18 settembre al 6 dicembre 2008 e di cui oggi è disponibile una versione digitale. Da questa prendiamo le parole che presentano il volume:   «La mostra, a cura di Anna Manfron, illustra il manoscritto A.2848 della Biblioteca dell'Archiginnasio che contiene i Vaticinia Pontificum, falsamente attribuiti a Gioacchino da Fiore. Nel manoscritto, databile entro la prima metà del Quattrocento, simbolici ritratti di Pontefici e raffigurazioni emblematiche sono accompagnati da testi profetici, allegorici ed enigmatici. L'opera è incentrata su profezie concernenti la successione dei Pontefici e sulle loro responsabilità rispetto al destino della Chiesa. Il testo parla di papi - da Nicolò III a Eugenio IV - senza rivelarne i nomi; ma chi sapeva osservare con attenzione le immagini ed interpretare le parole del testo poteva indovinare gli eventi futuri».   Inutile qui aggiungere altro se non rinnovare l’invito a sfogliare la mostra e il manoscritto, che rende merito a quella abilità di copisti e miniatori a cui abbiamo più volte accennato. Notiamo solamente che le profezie sono state falsamente attribuite a Gioacchino da Fiore, profeta eretico più volte richiamato nel romanzo. Nella prossima immagine saltiamo alla carta 8r.   [Vaticinia Pontificum, sive Prophetiae Abbatis Joachini], prima metà sec. XV. Collocazione: Ms. A.2848
immagine di Giovanni XXII nei Vaticinia Pontificum
Giovanni XXII nei Vaticinia Pontificum
La pagina della mostra relativa a questa immagine ci informa che il papa ritratto è quel Giovanni XXII che regge il soglio pontificio nel 1327, anno in cui si svolge la vicenda narrata nel romanzo. Il papa accusato dagli Spirituali e sostenuto dai Domenicani, il papa che risiede ad Avignone e che vorrebbe ricevere nel suo Palazzo Michele da Cesena, motivo per cui l’abbazia diventa centro di discussione e trattativa tra le due opposte fazioni della chiesa cattolica. A farla breve, nonostante non compaia mai direttamente nel romanzo (compare invece nella serie TV, che non rispetta l’unità di luogo propria del testo narrativo e che quindi ambienta alcune scene proprio nel palazzo pontificio in terra francese) Giovanni, la sua politica, la sua opposizione all’ideale di povertà della Chiesa è il motivo scatenenate del secondo filo narrativo dipanato da Eco, quello più storico-teologico che va a incrociarsi con la trama delittuosa. Tutte tematiche presenti in questa immagine dal momento che sia il piccolo mostro con la tiara che la colomba hanno uno stretto legame con l’ordine francescano. Il primo è «l'antipapa Pietro Rainallucci da Corbara, francescano, eletto col nome di Nicolò V nel 1328 a Roma, per volontà dell'imperatore Lodovico il Bavaro». La seconda «minacciata dalla frusta brandita dal papa, simboleggia l'ordine francescano avverso alle costituzioni contrarie alla povertà integrale» promulgate dallo stesso Giovanni.   [Vaticinia Pontificum, sive Prophetiae Abbatis Joachini], prima metà sec. XV. Collocazione: Ms. A.2848
immagine di Giovanni XXII, Extravagantes (1511)
Giovanni XXII, Extravagantes (1511)
Giovanni XXII, nato Jacques-Arnaud Duèze, non viene sicuramente dipinto sotto una luce positiva nel romanzo di Eco. Il suo papato ebbe grande importanza per l’ingente numero di testi giuridici da lui promulgati. Si ricordano in particolare le Extravagantes Iohannis XXII (di cui qui vediamo la pagina iniziale) e le Extravagantes communes. Entrambe queste raccolte di leggi saranno poi riunite al Corpus Iuris Civilis.   Giovanni XXII, Extrauagantes 20. Ioan. 22. Ioannis vigesimisecundi he sunt extrauagantes viginti, Lugduni, per Magistrum Nicolaum de Benedictis, 1511 die xvj mensis decembris. Collocazione: 6. ZZ. V. 31 op. 4   Giovanni XXII, Extrauagantes communes, Lugduni, per Magistrum Nicolaum de Benedictis, 1511 die vero XX mensis decembris. Collocazione: 6. ZZ. V. 31 op. 2
immagine di La mostra "Una voce nella città" (2021-2022)
La mostra "Una voce nella città" (2021-2022)
Il conflitto fra Domenicani e Spirituali, che adombra naturalmente quello fra Papato e Impero e in cui i Benedettini che abitano l’abbazia svolgono funzione di mediazione, è uno dei temi storici fondamentali del romanzo. Lo affrontiamo sfruttando la mostra Una voce nella città. Predicatori e società da Domenico alla Riforma, allestita all’Archiginnasio dal 4 novembre 2021 al 2 febbraio 2022 e curata da Pietro Delcorno. Della ricca documentazione raccolta in quell’occasione sceglieremo solo alcuni materiali, invitandovi ad approfondire questi temi sfogliando la versione online della mostra che come sempre è disponibile e che presenta anche il video dell’incontro di inaugurazione. Per chi frequenta il nostro gruppo di lettura fin dall’inizio, ricordiamo che ci era già capitato di citare la mostra quando, nella documentazione relativa al Ciclo di Eymerich di Valerio Evangelisti, avevamo parlato di Caterina da Siena, che compare in alcuni romanzi del Ciclo.
immagine di San Domenico emerge dalla tomba
San Domenico emerge dalla tomba
Dopo quanto detto in precedenza sul lavoro dei copisti non possiamo perdere l’occasione di mostrare il disegno che vedete a fianco, tracciato da un monaco bolognese nei margini di un manoscritto. Così viene spiegato nella sezione della mostra intitolata Domenico e l’ordine dei predicatori a Bologna:   «Il legame tra Domenico e Bologna dura da 800 anni. Venuto da lontano, dalla Spagna, nel 1221 Domenico morì come ‘immigrato’ a Bologna, scelta (con Parigi) come città strategica per la propria comunità. Era una scommessa: radicarsi nei centri culturalmente più vivaci dell’epoca. Dopo la morte, la fama non fu immediata. Trascurato per anni dal suo stesso Ordine, solo nel 1234 Domenico venne canonizzato e il suo corpo traslato in un sepolcro solenne, primo nucleo dell’Arca di san Domenico.Nel 1495, copiando un sermone per la festa della traslazione del santo, il frate bolognese Girolamo Borselli disegna Domenico che emerge dalla tomba, quasi per andare con le proprie forze nell’arca. Una presenza viva».   Iacobus Perusinus, Sermones de Sanctis, 1495.Collocazione: Ms. A.212
immagine di Domenicani vs. Francescani - Vicent Ferrer e Bernardino da Siena
Domenicani vs. Francescani - Vicent Ferrer e Bernardino da Siena
La mostra Una voce nella città si occupa soprattutto di un periodo successivo a quello in cui nell’abbazia si svolge il confronto sulla povertà della Chiesa. Dopo un secolo e mezzo però le tensioni fra Domenicani e Spirituali non sono sopite, come racconta la sezione della mostra intitolata Il predicatore: un modello di santità. Canonizzazioni e santificazioni dei rappresentanti dei due Ordini erano infatti (anche) strumenti di lotta interna alla Chiesa, come dimostra la figura del predicatore domenicano Vicent Ferrer, ritratto in questo frontespizio:   «Dotato di straordinarie capacità comunicative, Ferrer miscelava concretissimi appelli alla conversione, annunci sulla nascita dell’Anticristo, minacce sulla prossimità del giudizio finale. Venne quindi rappresentato spesso mentre indica Cristo giudice, come in un’edizione veneziana dei suoi sermoni, vero bestseller tra Quattro e Cinquecento. Anche a Bologna, città in cui era passato, venne così ritratto al centro del Polittico Griffoni: i suoi sermoni in una mano, mentre con l’altra indica il giudice eterno. La canonizzazione di Ferrer (1455) era la risposta domenicana al nuovo santo dei frati minori, Bernardino da Siena (1380-1444), più giovane ma canonizzato assai più celermente (1450). Agiografi e frati presentavano i due predicatori come il provvidenziale rinnovarsi del binomio Francesco/Domenico, inviati da Dio per convertire il mondo e ravvivare la fede. E se il marmo della facciata di San Petronio riproduce i due fondatori degli Ordini, sui pilastri della navata centrale vennero dipinti, nel 1467, i due santi più recenti».   Vicent Ferrer, Sermones de tempore et de sanctis, Venezia, Jacopo Penzio, Lazzaro Soardi, 25 luglio – 12 novembre 1496.Collocazione: 16.G.VI.21
immagine di Domenicani vs. Francescani - L'Inquisizione e la lotta all'eresia
Domenicani vs. Francescani - L'Inquisizione e la lotta all'eresia
Lo scontro fra Domenicani e Spirituali ci porta inevitabilmente a parlare anche della lotta che i due Ordini, protagonisti nei tribunali dell’Inquisizione, conducevano per estirpare la “mala pianta” dell’eresia. L’ultima sezione della mostra si intitola Parole in conflitto: inquisitori ed “eretici”. Da questa pagina estrapoliamo l’ultima citazione, che analizza e contestualizza la splendida illustrazione che vediamo a fianco, tratta da un incunabolo del 1493:   «Fin dalle origini, Domenico e i suoi compagni si erano posti il problema di fronteggiare movimenti religiosi giudicati eterodossi. Se all’inizio avevano assunto il compito della predicazione, ben presto alcuni Domenicani – e Minori – ricoprirono anche l’ufficio dell’inquisizione. Lo stesso Alberti, in tale veste, raccolse nel 1551 a Bologna la sbalorditiva deposizione di Pietro Manelfi che svelò l’insospettata articolazione dei gruppi anabattisti e la penetrazione della loro predicazione in Italia.Non si trattava solo di avere il controllo e il monopolio del discorso religioso. L’idea di una battaglia tra pulpiti evocava uno scontro decisivo, proiettato su uno scenario apocalittico. Nel Liber chronicarum, capolavoro assoluto della prima stampa, un’intera pagina ritrae questa lotta: se in cielo lo scontro è tra angeli e demoni, sulla terra il falso profeta dell’Anticristo predica consigliato dal diavolo, mentre su un secondo pulpito Elia ed Enoch difendono il Vangelo. Nell’interpretazione dell’Apocalisse, Enoch ed Elia erano i profeti fedeli degli ultimi tempi. A livello «figurale», essi rappresentavano «i due Ordini famosi, fondati per Dominico e Francesco, i quali sequitando quisti doi campioni conbaterano contra Antecristo», come dice un commento di metà Quattrocento. L’autore è chiaramente filofrancescano. Con una svolta spiazzante annuncia che l’alleanza tra i due Ordini si spezzerà: l’«ordo corvino [i Predicatori] si scaglierà contra l’ordene colombino [i Minori] per manifesta invidia» e, anzi, «al tenpo della persecutione se delungherà dalla navicella de sancto Petro» e sarà «ribello» alla Chiesa».   Per approfondire la vicenda che coinvolge Alberti e Manelfi consigliamo di sfogliare un’altra mostra tenutasi all’Archiginnasio nel 2019, in occasione del ventennale della pubblicazione del romanzo Q di Luther Blissett: Come un incendio d’estate secca e ventosa. Vent’anni di Q, un libro rivoluzionario tra storia della stampa e Riforma.   Hartmann Schedel, Liber chronicarum, Norimberga, Anton Koberger, Sebald Schreyer & Sebastian Kammermeister, 12 luglio 1493.Collocazione: 16.E.I.1
immagine di Ubertino da Casale, Arbor vitae crucifixae Iesu (1485)
Ubertino da Casale, Arbor vitae crucifixae Iesu (1485)
Prima di passare a parlare di chi in Il nome della rosa il tribunale inquisitorio lo regge, Bernardo Gui, non possiamo non accennare a chi invece lo fugge: Ubertino da Casale, indubbiamente uno dei personaggi più tragici e affascinanti del romanzo. Nel film francese del 1986 Ubertino mantiene visibilità e importanza, mentre viene completamente ignorato nella serie TV del 2019, che sceglie di percorrere piste narrative più semplici e avventurose piuttosto che mettere in scena le invettive e le profezie millenariste dell’anziano monaco. Vediamo in questa immagine la prima pagina dell’opera più famosa di Ubertino, Arbor vitae cricifixae Iesu, in un incunabolo del 1485.   Ubertino da Casale, Arbor vitae cricifixae Iesu, Venezia, per Andrea de Bonettis de Papia, 1485. Collocazione: 10. w. III. 16
immagine di Bernardo Gui e Nicolas Eymerich, dalla storia alla narrativa
Bernardo Gui e Nicolas Eymerich, dalla storia alla narrativa
Questa ricerca relativa al romanzo di Eco non può non riportare chi frequenta fin dall’inizio il Gruppo di lettura “Alphaville” alle letture dei romanzi di Valerio Evangelisti in cui è protagonista l’inquisitore Nicolas Eymerich. Il nome della rosa mette in scena infatti un altro inquisitore che proprio grazie alla comparsa in queste pagine narrative viene scoperto, seppur superficialmente, anche dal grande pubblico: il francese Bernardo Gui. Fra Eymerich e Gui - i personaggi storici, non i loro alter ego finzionali - c’è un legame importante: entrambi hanno scritto un vero e proprio manuale dell’Inquisitore. Eymerich il Directorium Inquisitorum, Gui la Practica inquisitionis heretice pravitatis. Su queste due opere per secoli - Nicolas agisce alla fine del XIV secolo, quindi qualche decennio dopo Bernardo - sono fondate e regolate le modalità con cui si svolgevano i processi inquisitori. Tornando sul versante letterario va però detto che il Ciclo di Eymerich e l’opera di Eco sono molto distanti fra loro. Evangelisti nega recisamente e con un certo fastidio di essersi ispirato a Il nome della rosa (e fa capire anche di non apprezzare particolarmente l’Eco romanziere) proprio all’inizio di una interessantissima intervista rilasciata insieme a Wu Ming 1 nel 2002 (Il mucchio incontra Valerio Evangelisti e Wu Ming 1. Storie, lettere e artigianato, «Il mucchio selvaggio», 10-16 dicembre 2002, n. 513. Gli intervistatori sono Alessandro Besselva Averame, Aurelio Pasini e Francesco Mezzetta). Il personaggio Eymerich però non può ignorare il suo illustre predecessore, infatti lo cita in più di un romanzo e sempre in maniera piuttosto critica (si veda il saggio di Alberto Sebastiani Nicolas Eymerich. Il lettore e l'immaginario in Valerio Evangelisti). Mettere in relazione i due personaggi - e quindi le opere narrative di cui sono protagonisti - sembra però inevitabile, non fosse altro che per metterne in luce le differenze. Lo stesso Sebastiani infatti apre con questo paragone la sua introduzione al primo volume della Titan edition dei romanzi del Ciclo di Eymerich, specificando che se Nicolas «apprezza l’opera repressiva» di Bernardo «lo stesso non può dire del suo libro: non gli sembra abbastanza efficace» (p. VI). Eymerich dunque, nella finzione narrativa, scrive il suo Directorium inquisitorum anche per sopperire alle mancanze del manuale redatto da Gui. Un interessante parallelo tra le opere di Nicolas e Bernardo si trova in L'inquisition dans le Midi de la France au XIII et au XIV siecle. Étude sur les sources de son histoire di Charles Molinier, p. 232-236.   L’inquisitore Eymerich di Francesco Mattioli, immagine guida del progetto di lettura Alphaville dedicato a Valerio Evangelisti realizzato nel 2023.
immagine di Bernardo Gui, inquisitore tolosano
Bernardo Gui, inquisitore tolosano
Della carriera dell’inquisitore Gui abbiamo una testimonianza importante. Nel 1692 infatti Philippus van Limborch pubblica in appendice alla propria Historia inquisitionis il Liber sententiarum inquisitionis Tholosanae ab anno Christi 1307 ad annum 1323. Il periodo indicato è proprio quello in cui Bernardo tenne la carica di inquisitore della città di Tolosa (con un intervallo fra il 1316 e il 1319). Il suo nome latinizzato, Bernardus Guidonis, compare nella prima pagina del Liber sententiarum appena citato. L’opera di inquisitore di Gui si conclude proprio nel 1323. Da quel momento ottiene diverse cariche come vescovo di alcune diocesi, fino alla morte avvenuta nel 1331. La Tabella che in questa raccolta di sentenze funge da indice ci segnala che dei molti processi qui pubblicati uno solo fu intentato contro un Apostolico, Petrus Lucensis Hyspanus. Le pagine che trattano questo caso possono essere lette qui e sono state pubblicate anche nel tomo 9.5 dei Rerum Italicarum Scriptores curato da Arnaldo Segarizzi nel 1907 (p. 75-78, di questo volume parleremo nelle immagini successive). Questo processo ci offre l’occasione per introdurre una delle figure che, pur comparendo sulla scena solamente nei ricordi degli altri personaggi, stende la sua ombra sul romanzo di Eco: fra Dolcino, che della setta degli Apostolici fu la guida indiscussa, in vita ma anche dopo la morte sul rogo.   Philippus van Limborch, Historia inquisitionis. Cui subjungitur Liber sententiarum inquisitionis Tholosanæ ab anno Christi 1307 ad annum 1323, Amsterdam, apud Henricum Wetstenium, 1692. Collocazione: 1. CC. I. 2
immagine di Historia fratris Dulcini haeresiarchae
Historia fratris Dulcini haeresiarchae
«Era una sera fatale, credo, perché mentre curiosavo tra i tavoli, ne scorsi uno sul quale stava aperto un manoscritto che un monaco copiava in quei giorni. Il titolo subito mi attrasse: Historia fratris Dulcini Heresiarche. Credo fosse il tavolo di Pietro da Sant’Albano, di cui mi avevano detto che stava scrivendo una monumentale storia dell’eresia (dopo quel che avvenne all’abbazia naturalmente non la scrisse più - ma non anticipiamo gli eventi). Non era quindi anormale che qui stesse quel testo, e altri ve n’erano di argomento affine, sui patarini e sui flagellanti. Ma assunsi come un segno soprannaturale, non so ancora se celeste o diabolico, quella circostanza, e mi piegai a leggere avidamente lo scritto» (p. 235).   Il testo scovato da Adso casualmente - ma il novizio benedettino non parla per metafora e crede realmente che gli sia stato inviato da una potenza divina o demoniaca - è una delle fonti fondamentali per la ricostruzione della vita dell’eretico Dolcino. Ludovico Antonio Muratori lo pubblica a stampa nel 1726 nei Rerum Italicarum Scriptores (ne vediamo a fianco la prima pagina). L’autore del manoscritto è sconosciuto ma lo si può supporre contemporaneo e seguace del frate. Per questo motivo viene chiamato in questa edizione “Anonimo sincrono”, appellativo che rimane anche nell’edizione datata 1907 della raccolta muratoriana, aperta da una prefazione firmata da Arnaldo Segarizzi (p. VII-LI). Il testo di Segarizzi è molto interessante non solo per le dettagliate informazioni che offre sull’Historia e sulle altre testimonianze scritte della vita di Dolcino, ma anche perchè suggerisce suggestioni che rimandano direttamente a quanto leggiamo nel romanzo di Eco. Segarizzi segnala che l’eresia degli Apostolici continuò a essere diffusa, e quindi combattuta dall’Inquisizione, per molti anni anche dopo la morte della loro guida (1307) - notazione che rende credibile la parte del romanzo che vede protagonisti Remigio da Varagine e Salvatore - poi aggiunge: «È naturale che avvenimenti così lunghi e tragici abbiano impressionato il popolo e che fede e fantasia abbiano creato varie leggende» (p. XXXIX). Adso sembra partecipare di questa fascinazione: è tanto desideroso di scoprire i fatti della vita del frate da andare a chiederne conto a Ubertino da Casale, proprio nelle pagine precedenti alle parole citate sopra. E ascoltate quelle storie dalle labbra del vecchio monaco il novizio avverte «nell’animo, e nelle viscere, uno strano fuoco e una incredibile irrequietezza» che lo rendono «incline alla disobbedienza» (p. 234). Proprio alla fine di questo episodio Adso incontra la ragazza con cui compie il primo e ultimo peccato carnale di una vita altrimenti casta e ligia alle regole monastiche. Ma il romanzo stesso è una prova del fatto che la figura di Dolcino è capace di generare nuove storie che affascinano chi le ascolta, anche a secoli di distanza. Aggiungiamo poi che nella serie TV, vi abbiamo accennato, viene aggiunta una linea narrativa inesistente sia nel romanzo che nel film del 1986. Vede protagonista Anna, figlia di Dolcino e Margherita, essa stessa vittima della crudeltà di Bernardo Gui che le ha ucciso il marito e la figlia. La giovane donna, che ha doti di guerriera, cerca la vendetta e per compierla penetra nell’abbazia per uccidere l’inquisitore. Al di là della verosimiglianza della vicenda (e anche della sua efficacia narrativa) è significativo notare la fertilità narrativa della storia di Dolcino e l’importanza che in essa rivestono i personaggi femminili. Se nella serie TV è la figlia Anna ad occupare prevalentemente la scena - ma non mancano i flashback dedicati all’uccisione dei suoi genitori - in molti dei racconti Margherita è figura centrale. Lo stesso Adso rimane colpito da quanto sente raccontare della donna. Un’ulteriore testimonianza la troviamo in due quadri riportati nel volume Fra' Dolcino e la setta degli Apostolici di Cesare Violini e Mauro Italo Mazzone. In entrambi la figura di Margherita, dipinta in modo da accentuare pathos emotivo, bellezza e attrattiva erotica, si colloca al centro della scena insieme a Dolcino, protagonista al suo pari. Qui è possibile visionare i quadri e le altre tavole presenti nel testo, cartine che illustrano i movimenti della setta e le battaglie in seguito alle quali venne sconfitta ma non cancellata. Segarizzi in più di un’occasione rileva anche l’importanza delle due lettere che Dolcino indirizza ai suoi seguaci. Sono senza dubbio le lettere per le quali Remigio viene condannato nel romanzo, a testimonianza della capacità di Eco nell’utilizzare i dati storici come elemento e motore della trama. Di queste lettere parla anche Nicolas Eymerich trattando della setta degli Apostolici nel suo Directorium (si veda ancora il testo di Segarizzi, p. XV). Sulle lettere torneremo, ma vale la pena citare un ulteriore passo della prefazione di Segarizzi:   «Ben altrimenti notevole è il codice cartaceo del primo quatrtrocento additatomi nella biblioteca nazionale di Torino dal dott. Carlo Frati, che lo avea rintracciato tra i codici di quella biblioteca non ancora catalogati. Fortunatamente potei collazionarlo prima ch’esso perisse nell’incendio della biblioteca torinese» (p. LI).   Un altro manoscritto prezioso e sconosciuto distrutto dal fuoco in una biblioteca.   Anonimo sincrono, Historia fratris Dulcini Haeresiarcae, in Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum scriptores ab anno aerae christianae quingentesimo ad millesimumquingentesimum, tomus nonus, Milano, ex Typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, 1726, p. 423-442. Collocazione: CONS. SC. STORICHE 39-1
immagine di Additamentum ad Historiam fratris Dulcini haeresiarchae (1726)
Additamentum ad Historiam fratris Dulcini haeresiarchae (1726)
Il tomus nonus dei Rerum Italicarum Scriptores pubblicato da Muratori nel 1726 presenta un Additamentum ad Historiam fratris Dulcini heresiarchae. Ne vediamo qui la prima pagina, nella quale non troviamo indicazione di autore. È ancora Segarizzi che lo rivela nella prefazione all’edizione datata 1907 dell’opera muratoriana (p. XII-XIV): si tratta proprio di Bernardo Gui, che aveva scritto nel 1316 il trattatello De secta illorum qui se dicunt esse de ordine Apostolorum che, a parte alcune varianti, corrisponde all’Additamentum. Queste pagine poi, con qualche ulteriore modifica, confluiranno nella Practica di Bernardo. Segarizzi lo pubblica col titolo originale. Ricordiamo infine che entrambi i documenti dolciniani su cui ci siamo intrattenuti sono stati pubblicati in traduzione italiana nel 1974, nella sezione Documenti (sono il primo e secondo documento) del volume di Edgardo Sogno La croce e il rogo. Storia di fra Dolcino e Margherita, recentemente ripubblicato.   Additamentum ad Historiam fratris Dulcini Haeresiarcae, in Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum scriptores ab anno aerae christianae quingentesimo ad millesimumquingentesimum, tomus nonus, Milano, ex Typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, 1726, p. 423-442. Collocazione: CONS. SC. STORICHE 39-1
immagine di Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomus nonus (1726) - Indice
Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomus nonus (1726) - Indice
Abbiamo parlato in precedenza di come i nomi dei personaggi del romanzo abbiano dato origine a congetture relative alla loro scelta da parte dell’autore che lo stesso Eco ha smentito e indicato come una inutile sovrainterpretazione del testo. Citiamo quindi qui una curiosità che non ha nessun valore interpretativo né pretesa di veridicità, ma che colpisce chi sfoglia il volume dei Rerum Italicarum Scriptores in cui nel 1726 venivano pubblicati i documenti dolciniani visti nelle due immagini precedenti, fino ad allora tramandati solamente dalla tradizione manoscritta. Possiamo certamente ipotizzare, anche se non ne abbiamo trovata testimonianza diretta, che Eco conoscesse questo volume (non le opere in sé, ma questa specifica edizione) ben prima di iniziare la scrittura del romanzo e che accingendosi a scrivere di Dolcino lo abbia di nuovo avuto fra le mani. Se si scorre l’indice di quel volume dopo avere letto Il nome della rosa (a fianco vedete la prima pagina, qui l’indice completo) salta all’occhio che la prima opera in elenco è una cronaca il cui autore è indicato come Jacobi a Varagine. Si tratta di Jacopo da Varazze, chiamato anche, appunto, Jacopo da Varagine. Ma quello che a noi interessa è proprio il toponimo, lo stesso che Eco sceglie per Remigio da Varagine, dolciniano in incognito che nasconde il proprio passato eretico sotto il saio benedettino e fra le mura dell’abbazia. È solo una suggestione, un gioco, ma leggendo le testimonianze lasciate da Eco su come aveva scelto alcuni nomi per i propri personaggi non sembra impossibile che abbia trovato (nell’imminenza della scrittura del romanzo o anni prima e lo riporti alla memoria in questa occasione) questo toponimo sul volume del 1726. In bella vista all’inizio dell’indice, geograficamente collocato in un territorio - quello ligure - perfettamente credibile nella sua storia, nello stesso documento che contiene la storia di Dolcino: perché non dare questa provenienza al dolciniano per eccellenza della storia, il povero Remigio?   Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum scriptores ab anno aerae christianae quingentesimo ad millesimumquingentesimum, tomus nonus, Milano, ex Typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, 1726. Collocazione: CONS. SC. STORICHE 39-1
immagine di Il Ms. B.1856: Dolcino e i dolciniani a Bologna e Modena
Il Ms. B.1856: Dolcino e i dolciniani a Bologna e Modena
Dalla più volte citata prefazione di Arnaldo Segarizzi cogliamo un ultimo spunto. Vi si parla infatti di un fugace soggiorno bolognese di Dolcino (p. XXXIII) ma soprattutto di un «poderoso codice membranaceo del primo trecento della comunale di Bologna [...], intitolato Acta Sancti Officii Bononie, perché contenente numerose inquisizioni e sentenze contro eretici o creduti tali delle diocesi bolognese e modenese dal 1291 al 1309, [...] descritto dal Frati nella sua Bibliografia bolognese al n. 3088, indi studiato dall’Aldrovandi, che ne trasse alcuni documenti» (p. XXVIII). La comunale di Bologna è naturalmente l’Archiginnasio e il codice citato è il manoscritto B.1856. Frati lo indica come: Liber Confessionum et citationum Hereticorum in Bononia, provincia Lombardiae. In parte è stato pubblicato in: Luigi Aldrovandi, Acta Sancti Officii Bononiae. Ab anno 1291 ad annum 1309, «Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna», ser. 3., XIV, 1896, p. 225-300 (articolo corredato dell’utilissimo indice del manoscritto). Proprio su questo codice Segarizzi segnala il passaggio del frate eretico da Bologna (c. 128r), ma in queste carte si trova spesso il nome di Dolcino e del suo predecessore Gherardo Segarelli da Parma. La loro predicazione aveva infatti trovato terreno fertile nelle diocesi di Bologna e Modena, di cui il manoscritto riporta gli atti inquisitori. Vediamo a solo titolo di esempio le prime due carte (c. 79r-80v) della sentenza che conclude il processo intentato a Rolandino de Ollis da Modena, datata 8 ottobre 1304. Abbiamo segnato alcuni dei passi in cui troviamo i nomi di Segarelli e Dolcino: Rolandino infatti è accusato di essere seguace della setta da loro fondata, gli Apostolici o, per l’Inquisizione, gli Pseudoapostoli. Luigi Aldrovandi non riporta questa sentenza ma il nome di Rolandino compare in altri processi da lui pubblicati, tanto che gli dedica una nota per informare che è stato «bruciato per eretico recidivo» (p. 267, nota 1). Queste carte sono invece pubblicate da Segarizzi nel tomo 9.5 dei Rerum Italicarum Scriptores (p. 66-68).   [Liber Confessionum et citationum Hereticorum in Bononia, provincia Lombardiae], sec. XIII-XIV. Collocazione: Ms. B.1856
immagine di Il Ms. B.1856: le lettere di Dolcino
Il Ms. B.1856: le lettere di Dolcino
In un’altra carta del manoscritto B.1856 (c. 110v) si trova un riferimento a quelle lettere dolciniane che tanta parte hanno nella trama de Il nome della rosa e che portano al rogo Remigio. Ancora una volta un dettaglio storico diventa elemento portante della narrazione, rendendo affascinante e fertile l’incontro fra realtà storica e finzione. Il passo evidenziato nell’immagine a fianco contiene la frase riportata da Segarizzi: «L’8 agosto 1304 prete Viviano confessa d’aver avuto “duas magnas literas que multa et varia continebant, unam quarum habuit quidam de Plumatio, aliam retinuit ipse ... et concremavit eandem”» (p. XLI, nota 1).   [Liber Confessionum et citationum Hereticorum in Bononia, provincia Lombardiae], sec. XIII-XIV. Collocazione: Ms. B.1856
immagine di Apocalisse di Giovanni
Apocalisse di Giovanni
Anche l’Apocalisse di Giovanni, di cui qui vediamo un’edizione di inizio Cinquecento con commento in volgare, nelle mani di Eco diventa fatto decisivo della trama. Anzi diventa l’elemento che dimostra come possa essere fallace il ragionamento logico e razionale, che può portare ad adagiarsi in schemi che sembrano costruiti appositamente per interpreatre i fatti e che invece possono risultare ingannevoli. La convinzione che l’assassino stia seguendo il libro di Giovanni per decidere le modalità degli omicidi si rivela alla fine una falsa pista. Allo stesso tempo però è proprio il riferimento all’Apocalisse che porta Guglielmo a sospettare di Jorge, che in gioventù, prima di diventare cieco, si era guadagnato fama e rispetto - e la possibilità di controllare la biblioteca pur non essendone il bibliotecario - per avere portato alla abbazia dalla Spagna, suo paese natale, proprio una splendida e preziosa raccolta di manoscritti miniati, molti dei quali riportavano il testo dell’Apocalisse. Nel Medioevo infatti, si tende a dimenticarlo, «spesso i libri si muovevano», perché «era più economico farseli prestare che farseli copiare» (Luciano Canfora, Il copista come autore, p. 39) oppure perché, come nel nostro caso, diventavano oggetti ambiti e contesi per accrescere il prestigio di una biblioteca. Da un punto di vista letterario con questa costruzione complicata e che sembra contraddirsi per scardinare le costruzioni troppo razionali e lineari, Eco mette in pratica un gioco con le convenzioni e gli stereotipi del genere giallo, forte anche del riferimento holmesiano che il suo protagonista porta nel nome.   Prophetie seu Apocalipsis Beati Ioannis apostoli et Euangelista: cum vulgari expositione nouissime impressa, Milano, per Io. Angelo Scinzenzeler, [Giovanni Giacomo Da Legnano e fratelli], in el 1520 adi XV de aprile. Collocazione: 4. D*. I. 09
immagine di Luigi Sabatelli, [Serie della Apocalisse] (sec. XIX)
Luigi Sabatelli, [Serie della Apocalisse] (sec. XIX)
Guglielmo e Adso, durante una delle loro visite clandestine in biblioteca (siamo nel capitolo Secondo giorno. Notte) incontrano sopra una delle porte un grande cartiglio con la scritta Apocalypsis Iesu Christi (p. 173). In quella parte della biblioteca infatti le scritte recitano versetti dell’Apocalisse, che poche ore prima era stata evocata dal vecchio Alinardo di Grottaferrata (p. 162). Il libro di Giovanni inizia a farsi strada fra le pagine del romanzo e nei pensieri di Guglielmo e del suo novizio. Durante quell’esplorazione Adso scorge un codice in cui è miniata una «bestia, orribile a vedersi» che sembra prendere vita. Poco dopo scorge una «donna circonfusa di luce» (p. 178). È l’inizio di una serie di visioni ispirate al’Apocalisse, indotte dalle erbe allucinogene bruciate nelle lampade della biblioteca per spaventare e tenere lontani i curiosi. Questa stampa rappresenta proprio la donna che schiaccia la bestia e ci trasporta in un’epoca distante secoli dal 1327 ma in cui l’opera di Giovanni continua ad ispirare gli artisti. Fa parte di una serie di sei immagini sciolte realizzate da Luigi Sabatelli nel XIX secolo, possedute dall’Archiginnasio. Clicca qui per vedere la Serie della Apocalisse di Luigi Sabatelli.   Luigi Sabatelli, Et vidi mulierem sedentem super bestiam... Apoc. Cap. XVII, [Milano?, s.n., 179.-1850], acqf., 631x455 mm. Collocazione: GDS, AA. VV. Cart. XXXII 29
immagine di Albrecht Dürer, [Giovanni divora il libro] (1511)
Albrecht Dürer, [Giovanni divora il libro] (1511)
«Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”. Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza».   La citazione è tratta dall’Apocalisse (10, 9-10). Severino Cesari, nell’articolo già visto uscito nell’imminenza della pubblicaizone del romanzo, aveva notato che Jorge da Burgos compiva lo stesso gesto dell’evangelista Giovanni e di Borges (e nella Bibbia si trova almeno un altro caso di bibliofagia in Ezechiele, 2,8-3,3). Jorge è l’uomo che ha portato all’abbazia una preziosa raccolta di Apocalissi miniate. Che il personaggio voglia rimandare allo scrittore spagnolo è poi così palese che Nilda Guglielmi ha dedicato un volume ai legami fra il romanzo e Borges, intitolato El Eco de la rosa y Borges, in cui si trova una caricatura che rappresenta Jorge con i lineamenti di Jorge Luis. Il legame fra i tre elementi è accresciuto dal gesto contraddittorio e significativo del mangiare - anzi divorare - un libro. Sul significato di questo gesto all’interno del romanzo si veda Franco Forchetti, Il segno e la rosa. I segreti della narrativa di Umberto Eco, p. 170. La xilografia a fianco, incisa da Albrecht Dürer e conservata presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, illustra questo episodio dell’Apocalisse.   Albrecht Dürer, [Giovanni divora il libro], [Norimberga, s.n., 1511], xilografia, 372x261 mm. Collocazione: AA. VV. Cart. III n. 12  
immagine di Ibn al-Haitham, Opticae thesaurus (1576)
Ibn al-Haitham, Opticae thesaurus (1576)
Eco vuole invitare il lettore che osserva i metodi di indagine di Guglielmo a pensare a Sherlock Holmes, anche per mettere in discussione l’eccesso di razionalità e lo stereotipo di detective che il personaggio di Conan Doyle ha contribuito a creare (basti pensare che alla fine Guglielmo è sconfitto su tutti i fronti). Lo si evince anche dagli interessi e dalle conoscenze scientifiche che il monaco dispiega lungo tutto il romanzo. Che un francescano di inizio XIV secolo possa realmente possedere tutte queste nozioni è domanda inutile e oziosa, che ci si potrebbe porre anche relativamente a un gentleman detective nullafacente nella Londra ottocentesca. Eco però, come spiega all’inizio delle Postille, crea il suo mondo narrativo fin nei minimi particolari e per farlo in maniera credibile ci offre le indicazioni per potere dire che in quell’universo finzionale il monaco Guglielmo da Baskerville potrebbe avere accumulato molte nozioni scientifiche e anche un metodo di pensiero razionale. Molte di queste indicazioni sono anche storicamente rilevanti, perché per esempio l’amicizia e la vicinanza intellettuale che il protagonista rivela di avere con Guglielmo da Occam e Ruggero Bacone stanno lì a testimoniare che collocare in quel periodo quella modalità di pensiero razionale non è un anacronismo. Allo stesso scopo di creazione di un mondo narrativo il testo, spesso per bocca dello stesso Guglielmo, cita i documenti sui quali il personaggio ha costruito la propria sapienza. Alle volte si tratta di documenti realmente esistiti, alle volte di testi storicamente falsi ma perfettamente plausibili - e utili - all’interno della costruzione narrativa. Un esempio di documento storicamente documentabile riguarda una delle passioni scientifiche del monaco: l’ottica. Anche in questo caso, se si pensa all’importanza che hanno gli specchi nella struttura della biblioteca, il riferimento non è gratuito o un banale sfoggio di sapienza, ma diventa elemento cardine della trama. È proprio in biblioteca, di fronte allo specchio che ha confuso Adso durante l’incursione della notte del secondo giorno, che il francescano invita il novizio a leggersi «qualche trattato di ottica [...] come certo l’hanno letto i fondatori della biblioteca. I migliori sono quelli degli arabi. Alhazen compose un trattato De aspectibus in cui, con precise dimostrazioni geometriche, ha parlato della forza degli specchi» (p. 176). Il trattato di Alhazen (il cui nome in arabo è Ibn al-Haitham) è quello che vediamo nell’immagine a fianco, pubblicato nel 1572 con il titolo Opticae thesaurus (si veda Treccani filosofia. Vol. 1, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2008, p. 24-25). L’interesse di Eco per lo specchio come oggetto scientifico-filosofico ha trovato applicazione anche nel saggio Sugli specchi (in Sugli specchi e altri saggi, p. 9-37).   Ibn al-Haitham, Opticae thesaurus. Alhazeni Arabis libri septem, nunc primùm editi. Eiusdem liber De crepusculis & nubium ascensionibus. Item Vitellonis Thuringolopoli libri 10. Omnes instaurati, figuris illustrati & aucti, adiecti etiam in Alhazenum commentarijs, a Federico Risnero, Basilea, per Episcopios, 1572. Collocazione: 11. Ω. I. 07
immagine di Gli occhiali di Guglielmo
Gli occhiali di Guglielmo
Guglielmo si interessa anche delle applicazioni pratiche dello studio scientifico. Per rimanere nell’ambito dell’ottica non possiamo infatti trascurare l’importanza che hanno per lui - e per la trama del romanzo - gli occhiali. Quando gli vengono rubati i suoi «vitrei ab oculis ad legendum» (p. 94) si dispera perché non può leggere e quindi interpretare i segni e gli indizi - a partire dal messaggio cifrato lasciato da Adelmo - che possono portare alla verità. Anche in questo caso Eco ci fornisce una fonte documentaria:    «Nicola prese la forcella che Guglielmo gli porgeva con grande interesse: “Oculi de vitro cum capsula!” esclamò. “Ne avevo udito parlare da un certo fra Giordano che conobbi a Pisa! Diceva che non erano passati vent’anni da che erano stati inventati. Ma parlai con lui più di venti anni fa”. “Credo che siano stati inventati molto prima”, disse Guglielmo» (ibidem).   Nicola il vetraio sta citando una famosa predica tenuta da fra Giordano da Pisa il 23 febbraio 1306 (1305 secondo il calendario fiorentino) in Santa Maria Novella a Firenze. Nel Quaresimale fiorentino 1305-1306 curato da Carlo Delcorno è la predica XV, p. 71-81 (il passo sugli occhiali è a p. 75). La vediamo qui in una edizione ottocentesca che la pubblica per la prima volta in una nuova lezione, curata da Enrico Narducci, insieme a tre prediche inedite dello stesso Giordano (conosciuto anche come Giordano da Rivalta o Rivalto). Un dettaglio ha un significato importante per definire la differenza fra Guglielmo e gli altri monaci, anche quelli che coltivano interessi simili ai suoi. La cultura del vetraio Nicola è limitata alla sua esperienza diretta - ha presumibilmente ascoltato la predica di fra Giordano, le date coincidono - e al mondo cristiano in cui è stato allevato. Alla fine del romanzo, quando il cellario Remigio viene imprigionato, Nicola prende il suo posto. Possiamo supporre che svolga il mestiere di vetraio senza una reale preparazione teorica - le difficoltà che incontra nel fabbricare un nuovo paio di occhiali sembrano corroborare l’ipotesi - e che non sia così specializzato da non potere essere spostato dalle fucine alla cucina. Guglielmo invece sa qualcosa di più. Sa, anche se lo espone in forma falsamente dubbiosa, che gli occhiali sono stati inventati ben prima di quanto creda Nicola - probabilmente anche di quanto credesse Giordano - e sa che non è il mondo cristiano ma quello arabo ad avere realizzato i migliori studi di ottica, come abbiamo visto in precedenza parlando di specchi.   B. Giordano da Rivalto, Tre prediche inedite del B. Giordano da Rivalto, con la nuova lezione di una quarta, corredate di opportune notizie, e pubblicate per cura di Enrico Narducci, «Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti», n.s., CXLVI, gennaio-febbraio 1857, p. 71-133. Collocazione: 11. R*. V. 48
immagine di Herbolario volgare (1536)
Herbolario volgare (1536)
Se Nicola il vetraio non può certamente essere definito scienziato, lo stesso non può dirsi dello speziale Severino, che non solo discute da pari a pari con Guglielo sulle virtù delle erbe, ma collabora attivamente con lui nelle indagini con vere e proprie sedute autoptiche. Severino mette in campo quelle doti di esperienza e di conoscenze mediche che mancano ad Adso per essere uno Watson completo. La sua curiosità e il suo desiderio di ricerca della verità, atteggiamenti tipici dello scienziato modello, gli saranno fatali. Severino tiene anche nel suo laboratorio una piccola biblioteca specialistica. Fra i molti erbari posseduti dall’Archiginnasio ne proponiamo uno del 1536 che ha la caratteristica non così diffusa a quell’altezza temporale di essere scritto in volgare e non in latino. Il titolo, Herbolario volgare, rileva e mette in mostra questo tratto distintivo. Poiché nel romanzo le erbe sono utilizzate per spaventare e confondere chi osa penetrare in biblioteca o per uccidere avvelenando, traiamo da questo volume l’immagine di una pianta di assenzio (Artemisia absinthium, dalla quale viene distillata la nota bevanda), erba tossica e capace di dare visioni e allucinazioni.   Herbolario volgare, nel quale se dimostra a conoscer le herbe, & le sue virtu, & il modo di operarle, con molti altri simplici, di nouo venute in luce, & di latino in volgare tradutte, con gli suoi repertorii da ritrouar le herbe, & li remedii alle infirmita in esso contenute, Nouamente stampato, Venezia, per Francesco di Alessandro Bindone, & Mapheo Pasini compagni, del mese di giugno 1536. Collocazione: LANDONI 2104
immagine di Herbolario volgare (1536) - Ricette manoscritte
Herbolario volgare (1536) - Ricette manoscritte
Dall’erbario mostriamo due pagine che ricordano che questi volumi erano veri e propri oggetti di lavoro, che lo speziale utilizzava e personalizzava aggiungendo di proprio pugno ricette e indicazioni per l’uso delle erbe.   Herbolario volgare, nel quale se dimostra a conoscer le herbe, & le sue virtu, & il modo di operarle, con molti altri simplici, di nouo venute in luce, & di latino in volgare tradutte, con gli suoi repertorii da ritrouar le herbe, & li remedii alle infirmita in esso contenute, Nouamente stampato, Venezia, per Francesco di Alessandro Bindone, & Mapheo Pasini compagni, del mese di giugno 1536. Collocazione: LANDONI 2104
immagine di Michele Pancotto, Le mirabili virtù del sale dell'assenzo, del theriacale... (1612)
Michele Pancotto, Le mirabili virtù del sale dell'assenzo, del theriacale... (1612)
La pianta dell’assenzio, citata prima per la sua tossicità, ha però anche capacità protettive e curative se assunta in dosi non elevate. In questo volume seicentesco (qui leggibile integralmente online) lo speziale bolognese Michele Pancotto ne esalta le virtù di antidoto contro i veleni. Insieme a questa pianta viene citato il sale theriacale e questo, come vediamo nell’immagine successiva, tira in ballo proprio l’Archiginnasio.   Michele Pancotto, Le mirabili virtu del sale dell'assenzo, del theriacale, e del perfetto elettuario contra veleni, co'l magistero di fare, e l'vno, e l'altro. Di fra Michele Pancotto bolognese, spetiale nel Monastero de' reuerendi canonici di San Saluatore di Bologna, Bologna, appresso Gio. Battista Bellagamba, 1612. Collocazione: 17. V. IX. 21
immagine di La preparazione della teriaca in Archiginnasio
La preparazione della teriaca in Archiginnasio
Nell’immagine vediamo un acquerello di Domenico Ramponi del 1818 che rappresenta la preparazione della teriaca nel cortile dell’Archiginnasio. Un’operazione che nel XVIII secolo poteva durare dai 40 ai 60 giorni, attirando speziali ed esperti ma anche nobili e curiosi. La teriaca era un antidoto contro il morso dei serpenti e per prepararla, nella ricetta tradizionale di Galeno, servivano circa 60 ingredienti. Maggiori informazioni di possono trovare nella mostra virtuale Augutissima Musarum Domicilia, che alla teriaca dedica una sezione specifica e nella quale si trova anche la bacheca preparata per l’allestimento realizzato nel 2019.
immagine di Massimo Ciavolella, La malattia d'amore (1976)
Massimo Ciavolella, La malattia d'amore (1976)
Abbiamo accennato in precedenza al fatto che i testi citati nel romanzo non sempre sono documenti reali. In alcuni casi Eco “costruisce” una falsa documentazione, coerente con quanto narrato. Tutta la trama in realtà ruota attorno a un’operazione di questo tipo, ma prima di affrontare il discorso sul secondo libro della Poetica vediamo un caso ben esemplificativo del gioco citazionistico messo in scena dall’autore. Durante l’esplorazione della biblioteca compiuta nel quarto giorno di soggiorno all’abbazia Adso, reduce dall’esperienza erotica della notte precedente, scova sugli scaffali un codice dal titolo Speculum amoris, «di fra Massimo da Bologna», che riporta «citazioni di molte altre opere, tutte sulla malattia d’amore» (p. 325). Per chi come noi è a caccia dei documenti citati nel romanzo per rintracciarli nelle raccolte dell’Archiginnasio l’esca è troppo ghiotta. Ci mettiamo alla ricerca ma nessun catalogo riporta quest’opera. Nasce il sospetto che Eco stia sfidando il lettore ad andare un po’ più a fondo, a fare una piccola investigazione. Oggi, ma all’uscita del romanzo la cosa era certamente molto meno semplice e banale, basta ampliare un po’ la ricerca e la rete restituisce la spiegazione del piccolo inganno, contenuta in un articolo di Donald McGrady, Fra Massimo da Bologna and His Speculum amoris in Il nome della rosa («Quaderni d’italianistica», XIII, 1992, n. 2, p. 265-272). Tutte le frasi lette da Adso appartengono a opere reali, ma il codice dello Speculum amoris non è mai esistito. L’opera che raccoglie le citazioni è infatti il volume di cui vedete la copertina a fianco: La “malattia d’amore” dall’Antichità al Medioevo, pubblicato nel 1976 da Massimo Ciavolella. Che, ci informa McGrady, è professore a Toronto ma «did study briefly at the University of Bologna» (p. 271) e può quindi fregiarsi del toponimo affibbiatogli da Eco. Eco trasforma quindi un volumetto uscito in libreria appena quattro anni prima in un manoscritto vecchio di secoli giacente sugli scaffali di una biblioteca-labirinto. Altri casi simili si trovano nel romanzo e McGrady ne dà conto, ma è ormai ora di affrontare la vera trovata geniale per un testo come Il nome della rosa, libro sui libri per eccellenza: creare una trama in cui un libro mai esistito è sia il movente che l’arma del delitto.   Massimo Ciavolella, La “malattia d'amore” dall'Antichità al Medioevo, Roma, Bulzoni, 1976. Collocazione: C.P.P.L. 2124      
immagine di Aristotele, Peri poietikes (1538)
Aristotele, Peri poietikes (1538)
Non si poteva chiudere questa rassegna senza citare il documento che pur non esistendo è il vero protagonista del romanzo: il secondo libro della Poetica di Aristotele. Il libro perduto (si veda Franco Forchetti, Il segno e la rosa. I segreti della narrativa di Umberto Eco, p. 159-179) che nel manoscritto nascosto da Jorge è tramandato col testo originale in greco, come la Poetica cinquecentesca di cui qui vediamo il frontespizio. Va detto innanzitutto che la divisione di un’opera in libri è una consuetudine che aveva senso in un sistema editoriale come quello medioevale e rinascimentale ma che non aveva corrispondenza reale con le modalità con cui l’opera era stata composta e diffusa nel mondo greco, quando la stessa idea di pubblicazione (se è lecito usare la parola per quel contesto) era profondamente diversa da quella a cui siamo abituati (si veda Luciano Canfora, Il copista come autore, in particolare il prologo Cos’è l’originale?, p. 11-19). Fatto sta che sull’esistenza di un secondo libro della Poetica dedicato alla commedia si sono fatte ipotesi per secoli. Nel 1980, quando esce Il nome della rosa, ogni dubbio è già stato fugato da Raffaele Cantarella che cinque anni prima, in un articolo intitolato I “libri” della Poetica di Aristotele («Atti della Accademia nazionale dei Lincei. Rendiconti, Classe di scienze morali, storiche e filologiche», 1975, p. 289-297), ha analizzato tutti i passi che nei secoli hanno fatto sospettare l’esistenza di questo libro perduto e ha dimostrato che nessuno di essi è minimamente convincente. Dunque il secondo libro della Poetica, quello dedicato alla commedia, non è mai stato scritto da Aristotele (e probabilmente nemmeno pensato e ipotizzato). Oggi infatti, grazie alla sua comparsa in Il nome della rosa, il secondo libro della Poetica ha trovato posto in Mirabiblia. Catalogo ragionato di libri introvabili (scheda 39), divertente e sorprendente catalogo di libri mai esistiti ma citati in altre opere. Quando lo stesso Eco, in un contesto saggistico e non narrativo, si occupa della trasmissione delle opere del filosofo greco (in Dall’albero al labirinto compare un capitolo dal titolo Metafora come conoscenza: sfortuna di Aristotele nel Medioevo, p. 121-142) non affronta neanche la questione del libro perduto.   Aristotele, Aristotelous Peri poietikes. Aristotelis Poetica, Parigi, in officina Christiani Wecheli, sub scuto Basiliensi, 1538. Collocazione: 7. EE. I. 08 op. 1
immagine di Antonio Riccoboni, Ex Aristotele Ars comica (1585)
Antonio Riccoboni, Ex Aristotele Ars comica (1585)
L’ipotesi che Aristotele avesse scritto un secondo libro della Poetica è stata nei secoli medioevali e rinascimentali ritenuta tanto valida che alcuni si sono addirittura azzardati a ricostruire questo testo. Come fa lo stesso Guglielmo nel romanzo, hanno ricostruito il testo dagli indizi raccolti in altri documenti. Antonio Riccoboni, umanista e storico veneto, professore all’Università di Padova, in appendice ad alcune traduzioni di opere aristoteliche colloca una sua ricostruzione del libro dedicato alla commedia e al comico. In un’edizione del 1579 che contiene la traduzione di diverse opere, non solo aristoteliche, questo suo lavoro è preceduto da una lettera dedicatoria che ne spiega le ragioni. In questa immagine vediamo invece la prima pagina della sua Ars comica ex Aristotele come si presenta in appendice a una traduzione (con commento) della sola Poetica pubblicata nel 1585. In Interpretazione e sovrainterpretazione (p. 102-105) Eco racconta una storia sorprendente e curiosa relativa all’opera di ricostruzione di Riccoboni. L’anno successivo alla pubblicazione del suo primo romanzo gli capitò di riprendere in mano per caso («mentre rovistavo tra gli scaffali più alti della mia biblioteca», ivi, p. 103) un volume che possedeva da tempo ma di cui aveva dimenticato l’esistenza: la seconda edizione della traduzione della Poetica fatta da Riccoboni, pubblicata a Padova nel 1587. Descrivendo il volume alla maniera dei collezionisti di libri antichi Eco si accorse non solo che quel volume conteneva l’appendice in cui il commentatore ricostruiva l’ipotetico libro aristotelico sul comico, ma che le condizioni fisiche del volume che teneva in mano erano del tutto uguali a quelle che lui aveva assegnato al manoscritto perduto nel suo romanzo. La parte sul comico era - nel reale volume cinquecentesco come nel manoscritto fittizio - molto più rovinata, con margini compromessi, «pagine sempre più arrossate e macchiate di umidità, e alla fine appiccicate tra loro e con l’aspetto di carte che fossero state spalmate di una sostanza grassa. Avevo tra le mie mani, in una versione a stampa, il manoscritto di cui avevo parlato nel mio romanzo. Per anni e anni, senza saperlo, lo avevo avuto lì, a casa mia» (ivi, p. 104). Che il racconto di Eco sia del tutto veritiero o anche solo in parte manipolato per servire al meglio il discorso che sta affrontando in quel saggio è poco importante. La storia è così bella che sarebbe perfetta per chiudere questa nostra ricerca. Purtroppo però l’Archiginnasio ha solo questa edizione vicentina datata 1585. Che è la prima edizione dell’opera di Riccoboni, non esattamente quella che Eco si ritrova fra le mani. Chi possiede l’edizione del 1587?, ci siamo chiesti. La risposta nella prossima immagine.   Poetica Antonii Riccoboni I. C. humanitatis in Patauino gymnasio explicatoris, Poeticam Aristotelis per paraphrasim explicans, & nonnullas Ludouici Casteluetrij captiones refellens. Eiusdem ex Aristotele Ars comica, Vicenza, apud Perinum bibliopolam, & Georgium Graecum socios, 1585. Collocazione: 7. OO. III. 16
immagine di Aristotele, Poetica (1587)
Aristotele, Poetica (1587)
La seconda edizione della Poetica tradotta e commentata da Riccoboni, pubblicata a Padova nel 1587, di cui qui vediamo il frontespizio (che riporta l’indicazione dell’appendice dedicata al comico), il modello inconscio del manoscritto assassino, è fortunatamente posseduta dalla Biblioteca di Casa Carducci a Bologna, che è sezione speciale dell’Archiginnasio. Ringraziamo i colleghi di questa biblioteca per averci fornito una riproduzione integrale del volume. O meglio, una riproduzione integrale di ciò che rimane del volume. Basta infatti leggere con attenzione le informazioni contenute nel catalogo per essere informati del fatto che si tratta di un esemplare mutilo dei fascicoli ²A-Y⁴. Che significa che in quel volume sopravvive solo il testo aristotelico. Il commento e, soprattutto, l’Ars comica ex Aristotele, sono scomparsi, asportati da una mano sconosciuta. Se fossimo scrittori di gialli ne uscirebbe una trama misteriosa in cui qualche seguace di Jorge da Burgos continua la sua campagna moralizzatrice contro il riso...   Poetica Aristotelis ab Antonio Riccobono latine conversa: Eiusdem Riccoboni Paraphrasis in Poeticam Aristotelis: eiusdem Ars comica ex Aristotele, Padova, apud Paulum Meietum, 1587. Collocazione: Casa Carducci 3. n. 35   Segnaliamo che un esemplare completo di quest’opera si trova alla Biblioteca Universitaria di Bologna mentre in rete se ne può trovare una digitalizzazione integrale della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. 
immagine di Uno sguardo alla biblioteca di Umberto Eco
Uno sguardo alla biblioteca di Umberto Eco
Quest’ultima immagine della gallery è stata aggiunta dopo l’incontro del Gruppo di lettura dedicato a Il nome della rosa, tenutosi giovedì 23 gennaio 2025. Uno dei partecipanti, collezionista di libri antichi, infatti ha raccontato di avere in alcuni casi “battagliato” con Eco per l’acquisto di alcuni volumi. Durante questo suo divertente racconto ha anche fatto cenno a un volume che illustrava i libri antichi di Eco che dopo la sua morte sono stati acquisiti dalla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano. Abbiamo così deciso di aggiungerlo a questa carrellata. Si tratta del catalogo di una mostra tenutasi nel 2022 alla Braidense, in cui quindi si trova solamente una selezione dei testi acquisiti, ma che offre spunti di interesse. Fra l’altro l’impianto del catalogo (e quindi della mostra) è simile a quanto stiamo facendo con la costruzione di queste gallerie documentarie. Anche in questo volume per alcuni dei romanzi scritti da Eco vengono fornite indicazioni di testi presenti nella sua biblioteca e che probabilmente sono serviti da fonte o spunto per la scrittura delle pagine narrative. Purtroppo nel catalogo non viene menzionato il volume che abbiamo visto nella pagina precedente, la Poetica commentata da Riccoboni e che avrebbe fatto da inconscio modello per il manoscritto maledetto. Sulla biblioteca personale dello scrittore è stato realizzato anche un bel documentario dal titolo La biblioteca del mondo (disponibile su RaiPlay), con la regia di Davide Ferrario.   L'idea della biblioteca. La collezione di libri antichi di Umberto Eco alla Biblioteca nazionale Braidense, a cura di James M. Bradburne, Riccardo Fedriga, Anna Maria Lorusso, Costantino Marmo, Valentina Pisanty e Bill Sherman, Milano, Scalpendi, 2022.
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